La tutela del marchio debole

La tutela del marchio debole

Gli esperti e la casistica hanno contribuito negli anni a elaborare la definizione di ‘marchio debole’ in giurisprudenza. Quest’ultimo si differenzia dal cosiddetto ‘marchio forte’ in relazione alla capacità distintiva. Il marchio debole è quello costituito da una denominazione di uso comune del prodotto lievemente modificata e per questo non meritevole di particolare tutela per la limitata capacità distintiva, che non ne consente la riconducibilità a una determinata impresa, con il conseguente avverarsi di una ingiustificata situazione di monopolio (per esempio: “carciofotto” per carciofi sott’olio).
È marchio forte quello che non presenta alcun collegamento con il prodotto contraddistinto e che costituisce quindi un mero frutto di fantasia (per esempio: “Fanta”).
Dal carattere forte o debole del marchio consegue per l’imprenditore una maggiore o minore possibilità di impedire ai concorrenti di penetrare nella propria sfera di clientela. In caso di marchio forte costituisce contraffazione anche un cambiamento che non modifichi l’elemento base del marchio (l’idea che lo caratterizza), mentre in caso di marchio debole anche lievi modifiche o aggiunte possono essere sufficienti a differenziare un marchio successivo escludendo la confondibilità tra i due segni.
La qualificazione di un marchio come forte o debole non è immutabile nel tempo; vi sono infatti alcuni casi in cui un marchio originariamente debole può diventare forte e quindi acquisire capacità distintiva e maggiore difendibilità grazie a un uso costante di particolare intensità e della conseguente associazione creatasi nella mente dei consumatori. Trattasi in questo caso del fenomeno del secondary meaning, che ha luogo quando un’espressione descrittiva o comunque di uso comune o generale, e quindi poco proteggibile o non proteggibile affatto come marchio, mantiene il suo significato originario, ma con il passare del tempo ne assume appunto un altro secondario di segno distintivo della provenienza del prodotto da una certa impresa. Per esempio, sono stati considerati forti (in seguito all’uso e alla propaganda) marchi inizialmente deboli come: “EstaTHE”, “Oransoda”, “Lemonsoda”.
Come accennato sopra, quel che rileva in questi casi è la percezione associativa del consumatore che contribuisce a superare l’identità tra il marchio (originariamente debole, in quanto costituito dalla denominazione generica del prodotto: “THE”, “Orange”, ”lemon” ) e il prodotto (le bevande notoriamente note come EstaTHE, Oransoda e Lemonsoda).
La maggior tutela acquisita dal marchio a seguito dell’assunzione del suo “secondo” significato dipenderà quindi dalla capacità del suo titolare di dimostrare gli effetti derivanti dall’uso del segno per un certo periodo e in ambito non puramente locale.
La giurisprudenza ha ripetutamente specificato infatti che l’uso che viene fatto del marchio nel tempo deve essere ampio e conosciuto, escludendo la rilevanza di una notorietà acquisita solo in una determinata zona. In ultima analisi, per eccepire il secondary meaning di un marchio non basta documentare i costi sostenuti per il lancio pubblicitario e l’entità delle vendite, ma occorre provare la percezione da parte del consumatore del nuovo significato del marchio e l’immediato collegamento con quei determinati prodotti.

Avv. Gaetano Forte
www.avvocatogaetanoforte.it

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