La via per innovare è diventare competitivi

A colloquio con Marco Eccheli di AlixPartners, che suggerisce di concepire l’innovazione come un processo a 360 gradi, che non si ferma solo al prodotto
La via per innovare è diventare competitivi

L’ultima edizione del Sial, la fiera più importante al mondo dedicata al settore alimentare, che si è tenuta a Parigi lo scorso ottobre, ha evidenziato ancora una volta come l’innovazione sia la chiave che può aprire alle imprese italiane le porte dei mercati internazionali, perché le rende distintive in un panorama sempre più affollato di competitor, quindi più competitive. Ma qual è il modo più corretto per fare ricerca e sviluppo in azienda, trasformando l’innovazione in un asset competitivo e distintivo? Abbiamo girato la domanda a Marco Eccheli, director di AlixPartners, multinazionale leader nella consulenza strategica a livello globale. Ecco i suggerimenti che abbiamo raccolto.

“Per prima cosa le aziende italiane devono rivedere la convinzione, piuttosto diffusa, che l’innovazione si fermi al prodotto – spiega Eccheli –. Investono molto su questo, senza considerare che per vincere sui mercati internazionali non bastano i prodotti, ma è necessario anche avere, per esempio, un pack adeguato, una supply chain efficiente, un footprint produttivo corretto, una campagna di comunicazione capace di sostenere i propri brand, ecc… Noi aiutiamo le imprese a capire che l’innovazione si gioca a 360 gradi e siamo in grado di fornire un supporto su ognuno di questi elementi. Studiamo con le imprese le soluzioni migliori per ‘industrializzare’ le idee innovative e lavoriamo molto sul recupero di efficienza per liberare risorse da investire in ricerca.

Può citare qualche esempio?
Abbiamo seguito recentemente un produttore di ingredienti per gelato artigianale di medie dimensioni, bravo a fare innovazione, ma con margini di miglioramento proprio nell’efficienza di filiera: l’abbiamo affiancato nel processo di acquisto, nella selezione di materie prime e fornitori, nell’implementazione produttiva delle innovazioni, nel rendere ‘industrializzabile’ in modo veloce ed efficiente l’innovazione.

ll risultato?
Il suo fatturato medio è aumentato del 20% negli ultimi due anni e l’utile è salito del 20 per cento.

Lavorate anche con grandi aziende internazionali. Un caso di successo dopo il vostro intervento?
Abbiamo supportato recentemente un leader mondiale del frozen, accompagnandolo in un complesso progetto di trasformazione. L’azienda in questione soffriva per l’erosione della marginalità nei mercati maturi, ma vedeva anche grandi opportunità di sviluppo nei mercati emergenti, opportunità che per essere colte rendevano necessari grandi investimenti in innovazione di prodotto per l’adattamento ai gusti e alle realtà locali. Il piano di trasformazione che abbiamo messo in atto ha operato su tutti gli assi del modello operativo dell’azienda: sourcing, supply chain, organizzazione, fabbriche, ottenendo un risparmio di 200 milioni di dollari già il primo anno. Un altro elemento importante su cui abbiamo operato è la riduzione della complessità del prodotto, necessaria per fare spazio all’innovazione da un punto di vista produttivo e distributivo.

Quando parliamo di innovazione nel settore alimentare, ci riferiamo sempre più spesso all’area del salutismo: quali sono i vostri suggerimenti alle imprese italiane che vogliono cavalcare al meglio questo trend?
Noi facciamo ogni due anni, negli Usa, una ricerca internazionale dedicata proprio all’health&wellness. L’elemento che ne esce con forza è che mangiare bene ormai è diventata una priorità per la maggioranza dei consumatori e questo implica che il mercato sia sempre più affollato dal punto di vista dell’offerta. Come fare, allora, a essere distintivi? Noi evidenziamo quattro elementi da tenere d’occhio:
– innanzitutto bisogna saper distinguere fra trend di breve periodo e fenomeni a lungo termine e agire di conseguenza: il free from, per esempio, il consumatore lo percepisce come un trend temporaneo, mentre il bio e l’all natural li inquadra in un lungo periodo;
– bisogna essere bravissimi nella segmentazione del consumatore: non c’è più un solo tipo di consumatore salutista, ma ce ne sono tanti diversi e non si può proporre una referenza che vada bene per tutti. Per esempio, i Millenials sono fan del free from, del real food e dell’autenticità, amano il bio e sono attenti a sostenibilità del pack. I baby boomers, invece, hanno un approccio più tradizionale, interpretano il salutismo più in termini di dieta, quasi come un evento sporadico;
– il consumatore salutista è meno fedele ai brand e ai canali, perché ama sperimentare, compra online, alterna il supermercato al negozietto sotto casa, l’iper al mercato rionale…
– ultimo elemento, bisogna lavorare molto bene a livello di supply chain: se questa non segue il percorso di innovazione, si rischia di fallire nell’execution. Abbiamo l’esempio, tra gli altri, di una catena di ristorazione americana specializzata nell’avicolo, che ha deciso di sposare una logica salutista proponendo pollo bio: non avendo studiato bene il sourcing, si è trovata in carenza di prodotto, non era in grado di soddisfare la domanda e alla fine ha tradito le promesse fatte ai consumatori, cosa peggiore che non farle del tutto! Bisogna quindi saper riprogettare correttamente tutta la supply chain in funzione delle proprie innovazioni.

Una volta messa a punta la catena dell’innovazione, bisogna poi portare la propria offerta sui mercati di tutto il mondo: qual è oggi il modello più efficace per andare all’estero?
A livello strategico, posso dire che non è più tempo di un export tattico: in base all’attrattività dei diversi mercati, bisogna progettare una route to market su misura, cercare i distributori giusti, fare partnership con altri produttori per aggregare l’offerta, valutare joint venture e acquisizioni per aumentare la massa critica. E soprattutto bisogna lavorare non solo sul prodotto, ma anche su brand: cito spesso l’esempio di Migasa, produttore di olio spagnolo, che da una specializzazione iniziale sullo sfuso è passato a comprare brand di olio, passando quindi dalla mera esportazione di prodotto all’esportazione di marchi. Una scelta che si è rivelata vincente.

La vostra presenza sui mercati esteri aiuta i vostri clienti a studiare percorsi mirati per ogni paese?
Certo. Abbiamo una presenza internazionale consolidata nel food&beverage che ci consente di creare team di lavoro misti, composti da consulenti italiani ed esperti del paese in cui l’azienda cliente ha intenzione di entrare. Un vantaggio importante.

Quali sono i mercati nei quali avete maturato maggiori competenze?
Sicuramente gli Stati Uniti, seguiti da UK, Francia e Germania.

Per andare all’estero le imprese prendono in considerazione sempre più spesso i nuovi canali digitali: voi cosa consigliate?
In generale, consigliamo di approcciare tutto il mondo digital attivandosi con grande attenzione in tre macro-aree:
1) big data:
– avviare modelli di analisi dati (raccolti dai canali social, mobile oppure attraverso sondaggi digitali) basati su strumenti di text analytics per meglio comprendere i gusti ed i comportamenti dei consumatori e supportarne la segmentazione e per sostenere lo sviluppo di nuovi prodotti;
– definire modelli predittivi in grado di ridurre il gap tra domanda e offerta (ottimizzazione delle forniture di materie prime, ottimizzazione della produzione)
2) e-commerce:
– ottimizzare i processi di supply chain (verso fonitori e clienti) attraverso modelli avanzati di pagamento (soprattutto mobile), inventory management ed e-commerce;
– supportare meglio i consumatori che sempre più spesso chiedono di poter operare in mobilità;
3) cloud:
– applicare tecnologie integrate, a basso costo e veloci, che integrino dati critici tra fornitori, produttori, packers, grossisti e retailers e che permettano di ottimizzare ulteriormente la supply chain.

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