Csr e lo Stato che non c’è

La responsabilità sociale d'impresa è un tema cruciale per aziende e cittadini. Ma è giusto che i privati si facciano carico di attività e servizi che lo stato non riesce più a garantire?
Csr e lo Stato che non c’è

Mai come adesso si sente parlare di CSR – Corporate Social Responsability. Nel retail, il mio settore, non c’è insegna che non si sia adoperata: straordinariamente, nei giorni bui della pandemia e per aiutare le vittime della guerra in Ucraina; ordinariamente, supportando attività in coerenza con i propri valori. Le diseguaglianze sociali crescono.

Il retail italiano è formato da migliaia di punti vendita che nel tempo si sono inseriti in tutti i tessuti socioeconomici dei nostri quartieri, città, periferie e piccoli borghi, disegnando una mappa della Csr grazie all’attenzione parossistica ai bisogni delle comunità.

UNA METRICA DI CONFRONTO NEL FUTURO DELLE INSEGNE

Noi ci siamo e ci saremo sempre di più. In futuro saremo giudicati anche per questo. Dovremo rispondere a cittadini che riconoscono l’utilità sociale delle imprese che operano sul loro territorio. Loro tutti i giorni ci scelgono, ma la fiducia, è ovvio, deve essere ricambiata. La scorciatoia del green washing o del social washing per fortuna è ormai una strada chiusa.

Non esiste ancora una tassonomia capace di definire l’impatto sociale delle nostre azioni, ma esiste ed è molto forte il giudizio della comunità con cui ci relazioniamo. Senza sfociare nel paradosso, potremmo dire che, ceteris paribus nella gestione dell’offerta di un retailer (qualità dell’assortimento, convenienza, promozionalità, ambiente, customer care, ecc.), in futuro la scelta di un’insegna rispetto a un’altra potrebbe essere profondamente segnata dal grado di empatia e vicinanza che il cliente percepisce verso i valori identitari che l’insegna stessa definisce e comunica.

LA PARTNERSHIP STRATEGICHE PER IL TERZO SETTORE

Solidarietà vuol dire anche fiducia. Questa è la nostra nuova variabile competitiva, sicuramente meno copiabile nel breve periodo rispetto a logiche assortimentali, promozionali, per non dire del prezzo o del dumping. E quando i valori definiscono la nuova relazione con il territorio, diventa fondamentale il rapporto con il Terzo Settore: insieme possiamo fare di più e meglio, ma solo seguendo la strada maestra del volontariato di competenza.

Si introduce così l’ulteriore tassello, questo sì paradossale, della “competitività solidale”. La coesione è sempre uno strumento competitivo che per vincere ha bisogno di efficienza, strategia e sinergie. Fare del bene è un lavoro che va fatto per bene. Sono molto d’accordo con un recente intervento dell’amico Ferruccio De Bortoli in cui ha spiegato la differenza tra il donatore (poniamo sia il cliente di un supermercato, tramite l’insegna) e un investitore: chi investe mette sempre in conto che vi possano essere delle perdite; un donatore, invece, non vorrà mai perdere il beneficio che vuole assicurare agli altri.

Da qui, l’importanza della scelta dei partner giusti per tutte le attività di Csr e la capacità di performance degli attori del Terzo Settore. Il tema del volontariato di competenza è straordinariamente importante per far fare un salto di qualità e dimostrare alla società che privato sociale e terzo settore insieme possono dare risposte giuste in termini di ambiente, welfare, bisogni e modelli di transizione.

I CONFINI DI RESPONSABILITÀ TRA PUBBLICO E PRIVATO

Infine, entra in gioco il ruolo dello Stato. Soprattutto in questo ultimo periodo abbiamo avuto la chiara percezione dei limiti dell’azione pubblica. Purtroppo, non possiamo più confidare nelle virtù taumaturgiche dello Stato, che non potrà mai più rispondere ad alcuni bisogni fondamentali dei cittadini perché non è più nelle condizioni economiche e finanziarie per farlo. Inutile stare a recriminare. Cosa fare? È giusto che il privato, e nella fattispecie mi riferisco proprio ai retailer che da anni sviluppano progetti in tutto il Paese per soddisfare anche servizi pubblici sempre più carenti, possa diventare un surrogato dello Stato?

Ecco un esempio concreto: le insegne che operano nel sud Italia con attività a favore della scuola non sono chiamate a fornire attrezzature per completare l’offerta formativa dei nostri figli, ma ricevono pressanti richieste per cancelleria, matite, blocchi e rotoli di carta igienica.

Dov’è allora il confine tra la responsabilità pubblica e l’equity dei retailer che si adoperano per le loro comunità di appartenenza? Dov’è il confine tra responsabilità dello Stato che premia con leggi ad hoc e benefici fiscali molto vantaggiosi uno sport professionistico e milionario come il calcio e lascia morire migliaia di associazioni dilettantistiche sportive che per sopravvivere chiedono aiuto alle aziende del retail italiano?

Il made in Italy della solidarietà delle nostre imprese deve sostituire la ristrettezza economica di uno Stato condannato alla povertà dalla sua storica incapacità? Obbligo o verità? Ai bisogni primari messi in fila dalle nuove povertà l’ardua sentenza.

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