
La pagella è di quelle che non si vedono spesso: l’Italia è promossa a pieni voti. Ma soprattutto conquista la medaglia di prima della classe. I dati rilevati da Nomisma parlano chiaro: nel 2024 l’export agroalimentare nazionale ha mosso più di 67 miliardi di euro, sulla spinta di una robusta accelerazione del +8 per cento. Gli altri top exporter hanno tutti fatto peggio: la Spagna non è andata oltre un +6%, Germania e Cina hanno portato a casa un +4%, gli Stati Uniti un +2%, mentre la Francia è praticamente rimasta al palo (+0,4%). Oltralpe, insomma, il made in Italy a tavola piace, tanto da correre più del mercato. E non solo nel 2024. È infatti impressionate l’accelerazione che, stando al monitoraggio di Ice, l’export del comparto ha messo a segno tra il 2019 e il 2024: ben +53,2 per cento. Un balzo che ha consentito alla corazzata delle imprese nazionali di erodere quote all’insidioso e incalzante fenomeno dell’Italian sounding, pur ancora capace di muovere circa 120 miliardi di euro all’anno. Tutto bene, quindi? Non proprio, perché questa felice stagione rischia di interrompersi proprio nel 2025.
IL FRONTE AMERICANO
Come noto, sul commercio internazionale è scoppiata la bufera dei dazi americani. Al momento in cui si scrive (la precisazione è più che mai d’obbligo) l’altalena, quasi schizofrenica, degli strali lanciati contro le esportazioni dell’Unione europea si è assestata a una maggiorazione del +20 per cento. E tanto basta, perché, qualora entrasse in vigore, la misura rischia di pesare moltissimo sulla food industry per almeno due ordini di ragioni. Il primo rimanda al ruolo che il mercato a stelle e strisce recita in rapporto all’export del made in Italy alimentare: Nomisma stima, infatti, che il nostro Paese sia il più esposto in Ue alla introduzione della misura. E questo perché le esportazioni verso gli Usa valgono il 12% del complessivo export di food&beverage. Molto di più rispetto a Germania (3%), Spagna (6%) e Francia (9%).
Un risultato certamente non casuale, ottenuto sulla scorta delle caratteristiche vincenti del cibo italiano visto con gli occhi del consumatore statunitense. Una ricerca condotta da Nomisma per Centromarca le ha messe in fila: bontà, item indicato dal 54% del campione, qualità delle materie prime (49%), sicurezza e tutela della salute (36%), tracciabilità del processo produttivo (27%) e sostenibilità ambientale (23%). Proprio su questo combinato disposto ha, dunque, fatto leva la proposta tricolore per conquistare il palato degli americani. Riuscendo a ottenere risultati di assoluto rilievo: tra il 2013 e il 2023 (certifica ancora la survey di Nomisma) l’export di alimentari e bevande dall’Italia agli Usa è cresciuto del +136%, con un incremento del +18% tra il primo semestre 2023 e il primo semestre 2024, arrivando oggi a muovere 6,5 miliardi di euro.
È chiaro, dunque, che davanti a questi numeri il conto della possibile imposizione di dazi al 20% si prospetta salatissimo per le nostre imprese.
“Le nuove tasse, che si sommano a quelle già previste per le nostre esportazioni, unite alla possibilità di averne ulteriori di tipo verticale su alcuni nostri prodotti merceologici come il vino – dichiara il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino – rischiano di generare effetti devastanti lungo tutta la catena del valore, che stimiamo in un -10% sui fatturati e un -30% nei volumi dell’export”.
Una scure che, secondo Nomisma, si andrebbe ad abbattere in misura potente soprattutto su quell’ampio paniere di prodotti, particolarmente esposti al peso delle esportazioni verso gli Usa: si va dalle acque minerali, che sviluppano oltreoceano il 41% del proprio export, all’olio d’oliva (32%), passando per aceti (30%), liquori (26%) e vini fermi e frizzanti imbottigliati (25%). Senza dimenticare i formaggi, una categoria che, pur essendo complessivamente esposta solo per il 9%, conta al proprio interno denominazioni come il Pecorino Romano Dop, che ricava dagli Stati Uniti il 57% dell’intero valore delle esportazioni.
La cover è opera di Giacomo Bettiol