
Mi sono sempre piaciuti gli ossimori. Hanno un che di affascinante e ricordo che spesso, nelle lunghe tratte automobilistiche vacanziere, con i miei bimbi (poveri…) facevamo a gara a chi ne trovava di più: dal silenzio assordante alla dolce amarezza, dal magico realismo al caos calmo, dall’insopportabile leggerezza (alla Kundera) alla lucida follia e via dicendo. Ecco perché qualche giorno fa, a Linkontro, nell’annuale mitico evento in Sardegna organizzato da NIQ, quando l’amico Paolo Grue, Presidente e Ceo di Procter & Gamble, ha parlato di leadership vulnerabile, ho dapprima sorriso dei miei ricordi e ancor più accentuato la mia concentrazione all’ascolto. Tutto ciò che ha detto mi ha trovato perfettamente d’accordo.
DALL’INFALLIBILITÀ ALLA VULNERABILITÀ
Leadership vulnerabile. Per anni, il modello dominante di leadership è stato quello dell’infallibilità: il capo che sa tutto, che decide da solo, che non mostra mai debolezze. Un archetipo solido, forse rassicurante, ma probabilmente (anzi sicuramente) sempre più inadeguato di fronte alla complessità del presente. Oggi si sta facendo strada un’altra idea di leadership: più umana, più autentica, capace di includere anche la fragilità, l’incertezza, l’ascolto. Una leadership vulnerabile, che non significa assenza di competenza, ma anzi la presenza di coraggio. Come ha scritto Brené Brown, bravissima studiosa della vulnerabilità nelle organizzazioni: “La vulnerabilità è la culla dell’innovazione, della creatività e del cambiamento”. Anche in questo caso sono molto d’accordo.
CAMBIO DI PARADIGMA
Nei contesti aziendali, questo si traduce in qualcosa di molto concreto. Un leader che non si nasconde dietro una maschera di perfezione, ma che sa dire “ho sbagliato”, “non ho tutte le risposte”, “voi cosa ne pensate?” è una figura che non comanda dall’alto, ma guida dall’interno, creando spazi di fiducia e confronto. Mi piace riprendere e sottolineare due concetti semplici ma chiari: “non ho tutte le risposte” non significa che può mancare la competenza. La competenza deve anzi essere conditio sine qua non, ma è differente dalla saccenza di ruolo. E poi, e questo potrebbe essere un cambio di paradigma epocale: il concetto della figura che non comanda dall’alto mette in crisi l’organizzazione funzionale top down, soprattutto dalle nuove generazioni.
La vulnerabilità è una scelta intenzionale, non un’imperfezione. È il contrario della finzione: è ammettere che l’errore fa parte del percorso e che riconoscerlo è il primo passo per migliorare. È trasformare il fallimento di un’attività in apprendimento condiviso. Da errore = problema a errore = innovazione. Questo tipo di leadership genera appartenenza: i collaboratori, i colleghi si fidano di più di chi si mostra umano. E in contesti organizzativi dove il leader è trasparente si sviluppano più facilmente l’innovazione, il senso di iniziativa, l’impegno reciproco. La vulnerabilità, paradossalmente, apre le porte all’intelligenza collettiva In un mondo incerto, dove il cambiamento è continuo, servono leader che sappiano convivere con l’ambiguità, che non abbiano paura di dire “non so, voi che ne pensate?” e che abbiano il coraggio di condividere i propri timori.
SPAZIO ALL’AUTENTICITÀ
In sintesi: vulnerabilità non significa assenza di responsabilità. Un leader vulnerabile è nel contempo anche una guida solida, capace di decisioni ferme, ma è una guida che ascolta prima di parlare, che include invece di controllare, che ispira fiducia attraverso l’autenticità.
La leadership vulnerabile non è una moda, ma una necessità. È il linguaggio della fiducia, della crescita condivisa, del coraggio di essere veri in un tempo che ci chiede di esserlo. Come ben sapete, amo mettere in pratica il mio credo e le mie idee e quindi quale miglior esempio di un leader vulnerabile quello che, terminati gli interessantissimi lavori mattutini a Forte Village, nella competizione pomeridiana dei go kart ottiene sì il miglior tempo di qualificazione, ma in un ardito sorpasso si rompe due costole decollando fuori pista. Dolce dolore di un leader vulnerabile.