
Il Presidente statunitense Donald Trump e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen hanno raggiunto un accordo sull’entità dei dazi a cui l’amministrazione americana intende sottoporre le merci provenienti dall’UE a partire dal prossimo primo agosto: saranno del 15 per cento.
Benché triplicato rispetto al dazio medio del 4,8% a cui erano sottoposti finora i prodotti europei sul mercato Usa (con punte fino al 15% per alcune merci alimentari, come i prodotti caseari) il punto di caduta emerso dalla trattativa è notevolmente inferiore al 30 per cento che Trump aveva minacciato due settimane fa. L’accordo tuttavia porta con sé conseguenze tutt’altro che trascurabili per l’economia italiana. I dazi generalizzati imposti dagli Usa al 15%, seppur parte di un quadro più ampio di riequilibrio commerciale, sono una minaccia concreta per molte imprese italiane.
L’IMPATTO SULL’EXPORT ITALIANO
Le esportazioni del Made in Italy verso gli Stati Uniti hanno raggiunto un valore complessivo di 65 miliardi di euro: di questi, ben 7,8 miliardi riguardano prodotti agroalimentari, settore per il quale gli Usa rappresentano il primo mercato extraeuropeo. Ed è soprattutto per questo che la nuova soglia daziaria del 15% sta generando forte preoccupazione tra gli esportatori italiani. L’accordo prevede regimi speciali con dazi reciproci azzerati, ma questi devono ancora essere definiti e ratificati lasciando nel frattempo molti settori nell’incertezza.
Negli ultimi cinque anni l’export italiano complessivo è cresciuto del +30%, raggiungendo i 623 miliardi di euro nel 2024, con un avanzo commerciale di 55 miliardi. Questo slancio potrebbe ora subire una brusca frenata.
Il futuro di molti prodotti italiani dipenderà ora dalla definizione dettagliata dei regimi speciali. Senza esenzioni chiare e rapide, il rischio è quello di un rallentamento dell’export e di un effetto domino su occupazione e investimenti.
COLDIRETTI: COMPENSAZIONI UE PER I SETTORI PIÙ COLPITI
“L’accordo con tariffe al 15% è sicuramente migliorativo rispetto all’ipotesi iniziale del 30% che avrebbe causato danni fino a 2,3 miliardi di euro per i consumatori americani e per il Made in Italy agroalimentare. Tuttavia, il nuovo assetto tariffario avrà impatti differenziati tra i settori e deve essere accompagnato da compensazioni europee per le filiere penalizzate anche considerando la svalutazione del dollaro. Dobbiamo aspettare di capire bene i termini dell’accordo e soprattutto di leggere la lista dei prodotti agroalimentari a dazio zero sui quali ci auguriamo che la Commissione UE lavori per far rientrare, ad esempio, il vino che altrimenti sarebbe pesantemente penalizzato”. È quanto afferma il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini. L’associazione ribadisce la contrarietà ad ammettere in Italia prodotti agroalimentari che non rispettino gli stessi standard sanitari, ambientali e sociali imposti alle imprese europee. “È fondamentale che l’Unione Europea continui a difendere con fermezza il sistema delle indicazioni geografiche, che rappresentano una garanzia di qualità e origine, e un presidio culturale ed economico del nostro cibo”. Gli Stati Uniti restano un mercato fondamentale, dove “dobbiamo proteggere i consumatori dalle imitazioni del falso made in Italy”, dichiara il Segretario generale della Coldiretti, Vincenzo Gesmundo. “In un mercato già invaso da prodotti come il parmesan o il romano cheese made in Usa, dobbiamo portare avanti un’azione strutturale per promuovere il Made in Italy autentico e contrastare l’Italian sounding, che negli Stati Uniti provoca ogni anno perdite stimate in oltre 40 miliardi di euro”.
CIA: PIÙ CHE UN ACCORDO, UNA RESA
“Ora l’export del Made in Italy agroalimentare verso gli Usa rischia grosse perdite in settori chiave come vitivinicolo, olio, pasta e riso, caseario, senza ottenere niente in cambio. Oltre all’impatto diretto, si corre il pericolo anche di un grave danno all’intero indotto agroindustriale, con pesanti ripercussioni sull’occupazione”. Così il Presidente di Cia-Agricoltori Italiani, Cristiano Fini, commenta l’accordo sui dazi usa. “Nonostante sia stata evitata la tariffa al 30%, resta una grande preoccupazione per l’impatto reale di questi dazi, ma prima di trarre conclusioni definitive vogliamo aspettare gli sviluppi dei prossimi giorni, con la definizione ufficiale delle liste doganali”, continua Fini.
Secondo Cia il rischio concreto di un calo dell’export è molto alto, con danni a comparti strategici e un aumento dei costi per le imprese italiane, che tenderanno a perdere margini di profitto oppure a dover trasferire parte di questi costi sui consumatori, rischiando di ridurre la domanda nel mercato Usa. L’effetto combinato di dazi e fluttuazioni del cambio euro-dollaro non potrà che aggravare l’impatto delle misure doganali, traducendosi in costi aggiuntivi reali per le aziende nazionali e rendendo meno competitivo il Made in Italy.
Nel settore caseario, ad esempio, i dazi colpiranno soprattutto i formaggi Dop come la Mozzarella di Bufala, oltre al Pecorino Romano utilizzato oltreoceano dall’industria alimentare per aromatizzare patatine in busta e altri snack. In pericolo anche vino, olio, pasta, riso e farine, tra i prodotti più amati dal mercato Usa. Anche in questi settori, secondo Cia, si rischiano potenziali ricadute occupazionali qualora i dazi non vengano mitigati con accordi o misure di sostegno.
UIV: IL VINO ITALIANO RISCHIA UN DANNO DA 317 MILIONI DI EURO
“Con i dazi al 15% il bicchiere rimarrà mezzo vuoto per almeno l’80% del vino italiano. Il danno che stimiamo per le nostre imprese è di circa 317 milioni di euro cumulati nei prossimi 12 mesi, mentre per i partner commerciali d’oltreoceano il mancato guadagno salirà fino a quasi 1,7 miliardi di dollari. Il danno salirebbe a 460 milioni di euro qualora il dollaro dovesse mantenere l’attuale livello di svalutazione. Facciamo sin d’ora appello al governo italiano e all’Ue per considerare adeguate misure per salvaguardare un settore che grazie ai buyer statunitensi era cresciuto molto”. A dirlo è il Presidente di Unione italiana vini (Uiv), Lamberto Frescobaldi, secondo il quale “con l’incontro fra i Presidenti Trump e von der Leyen si è almeno usciti da un’incertezza che stava bloccando il mercato; ora sarà necessario assumersi il mancato ricavo lungo la filiera per ridurre al minimo il ricarico allo scaffale. Secondo le nostre analisi, a inizio anno la bottiglia italiana che usciva dalla cantina a 5 euro veniva venduta in corsia a 11,5 dollari; ora, tra dazio e svalutazione della moneta statunitense, il prezzo della stessa bottiglia sarebbe vicino ai 15 dollari. Con la conseguenza che, se prima il prezzo finale rispetto al valore all’origine aumentava del 123%, da oggi lieviterà al 186%”. Per l’Osservatorio Uiv il conto si fa molto più salato alla ristorazione, dove la stessa bottiglia da 5 euro rischierà di costare al tavolo – con un ricarico normale – circa 60 dollari.
Il Segretario generale di Unione italiana vini, Paolo Castelletti, sottolinea: “Non ci si può ritenere soddisfatti per questo accordo: un dazio al 15% è certamente inferiore all’ipotesi del 30%, ma è altrettanto vero che questa tariffa è enormemente superiore a quella, quasi nulla, del pre-dazio. Rispetto ai competitor europei, l’Italia rischia inoltre di subire un impatto maggiore, da una parte per la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna; dall’altra per la tipologia dei prodotti del Belpaese che concentrano la propria forza sul rapporto qualità prezzo, con l’80% del prodotto che si concentra nelle fasce ‘popular’ – quindi a un prezzo franco cantina di 4,2 euro al litro – e con solo il 2% delle bottiglie tricolori collocato in fascia superpremium”.
Sempre secondo l’Osservatorio Uiv, il rischio – qualora non si attivasse una riduzione dei ricavi lungo la filiera, che rappresenta comunque un danno – è di trovarsi, a fine 2026, vicino ai valori espressi nel 2019. Per Uiv, ben il 76% (l’equivalente di 366 milioni di pezzi) delle 482 milioni di bottiglie italiane spedite lo scorso anno verso gli Stati Uniti si trova in “zona rossa”, con un’esposizione sul totale delle spedizioni superiore al 20%. Aree enologiche con picchi assoluti per il Moscato d’Asti (60%), il Pinot grigio (48%), il Chianti Classico (46%), i rossi toscani Dop al 35%, quelli piemontesi al 31% così come il Brunello di Montalcino, per chiudere con il Prosecco al 27% e il Lambrusco. In totale sono 364 milioni di bottiglie, per un valore di oltre 1.3 miliardi di euro, ovvero il 70% dell’export italiano verso gli Stati Uniti.
“Se confermato, il dazio del 15% avrebbe un impatto molto pesante per il nostro comparto. Non possiamo nascondere la preoccupazione”. A sottolinearlo è Giovanni Busi, Presidente del Consorzio Vino Chianti.“In questo momento dobbiamo stringere i denti e attendere di capire esattamente che cosa sia stato deciso. Dalla prima lettura sembra che l’Europa abbia rinunciato a gran parte delle sue richieste. L’unica nota positiva che viene evidenziata oggi è che si era parlato di un possibile dazio al 30% e che quindi, in confronto, il 15% è una riduzione. Ma resta comunque un impatto pesante per le nostre aziende e per l’export del vino italiano”.
ASSICA: SALUMI ITALIANI SOTTO PRESSIONE
“L’incremento tariffario rappresenta un freno significativo per le nostre imprese, che già operano in un contesto globale estremamente instabile. A subire le conseguenze saranno sia i produttori italiani sia i consumatori statunitensi, che dovranno affrontare un inevitabile aumento dei prezzi”, commenta Lorenzo Beretta, Presidente di Assica. “Diversamente dal 2019, quando le misure colpirono solo specifiche tipologie di prodotti, oggi la tassa doganale si applica a tutta la categoria dei salumi con un impatto particolarmente pesante sui prosciutti crudi, che costituiscono la principale voce dell’export verso gli Usa”.
Questo scenario si inserisce in un contesto già critico per l’industria italiana delle carni e dei salumi, fortemente penalizzata sul fronte export dalla diffusione della peste suina africana. Le conseguenti restrizioni sanitarie hanno portato alla chiusura di mercati rilevanti come Giappone e Cina, riducendo ulteriormente le opportunità di sbocco internazionale.
“Gli Stati Uniti si sono dimostrati negli ultimi anni un mercato dinamico e in crescita per i salumi italiani. Oggi però, con l’introduzione di queste nuove barriere, temiamo un brusco rallentamento, che potrebbe riportarci ai livelli di esportazione del 2022”, aggiunge Beretta. “Per un settore già messo a dura prova da crisi sanitarie e ostacoli commerciali, questa misura rappresenta un ulteriore colpo da assorbire”.
A complicare ulteriormente il quadro contribuisce il persistente indebolimento del dollaro, che riduce la competitività dei prodotti italiani sul mercato statunitense. Se il tasso di cambio dovesse rimanere su livelli sfavorevoli, si stima una possibile contrazione dell’export verso gli Usa fino al 10%, con una perdita potenziale di circa 25 milioni di euro per il comparto.
“Rinnoviamo l’appello alle istituzioni italiane ed europee: serve un confronto urgente con le autorità statunitensi e l’adozione di misure concrete per supportare le imprese colpite e difendere la competitività del Made in Italy a livello globale”, conclude il Presidente di Assica.
CONSORZIO PROSCIUTTO DI PARMA: PUNTIAMO ANCHE AD ALTRI MERCATI
Per Alessandro Utini, Presidente del Consorzio Prosciutto di Parma, l’accordo raggiunto tra Usa e Ue sui dazi “influirà sui volumi del nostro export negli Usa, che da soli rappresentano un terzo delle esportazioni e, dopo l’Italia, sono il primo mercato per il Prosciutto di Parma. Si tratta di una situazione preoccupante per i nostri produttori e per tutti i soggetti coinvolti in questo asse commerciale cos’ importante per la nostra Dop, compresi importatori e distributori americani”. Complica la situazione “la significativa svalutazione del dollaro rispetto alla nostra valuta, cosa che amplifica il valore delle maggiorazioni di prezzo, che ricadranno anche sul consumatore americano”. In attesa di vedere gli sviluppi sul fronte americano, Utini sottolinea la necessità di guardare anche ad altri mercati “come quelli dell’Est e attutire così i contraccolpi dei dazi”.
CENTROMARCA: PROSEGUIRE IL NEGOZIATO
Vittorio Cino, Direttore generale di Centromarca, commenta in una nota: “Il dazio del 15% applicato dagli Stati Uniti si tradurrà in una contrazione delle esportazioni italiane dei beni di largo consumo pari a 767 milioni di euro con un impatto del -7,7% a valore. Il nostro export esce senza dubbio penalizzato dalla decisione della Casa Bianca, e Centromarca continuerà ad intervenire in tutte le sedi affinché la negoziazione prosegua. L’importante lavoro diplomatico a livello europeo e italiano ha consentito di scongiurare l’applicazione dell’aliquota del 30%, che avrebbe avuto effetti devastanti sulle nostre industrie alimentari e non food riducendo di un miliardo e 700 milioni di euro un export che vale 9,9 miliardi di euro (stima Nomisma, 2024). Spazi di manovra ci sono e crediamo che un nuovo accordo possa essere raggiunto”.
ASSITOL: DAZI SOSTENIBILI, MA ANCORA TROPPE INCOGNITE
I dazi al 15% sono da considerarsi sostenibili, ma preoccupano i rischi legati alla debolezza del dollaro e all’inflazione. È questo il commento di Assitol sull’accordo tariffario appena raggiunto tra Usa e UE. “I dazi non piacciono a nessuno – afferma Anna Cane, Presidente del gruppo olio d’oliva dell’associazione – tuttavia questa percentuale, che vale per tutti i produttori europei, consente al nostro export di lottare ad armi pari con gli altri competitor europei ed extra-UE”.
Negli ultimi anni, il settore ha vissuto difficili campagne di produzione, a causa del cambiamento climatico e delle tensioni internazionali che hanno provocato aumenti dei costi e quotazioni in crescita. “Questo periodo complesso ci ha insegnato a resistere – osserva Anna Cane – se i dazi non superano questa soglia le aziende possono continuare a lavorare, confermando la nostra storica propensione all’export”. A pesare però saranno anche il valore del dollaro, oggi più debole rispetto all’euro, e il rischio inflazione proprio a causa dei dazi. “Per questa ragione, auspichiamo l’intervento dell’Unione Europea sui principali nodi della competitività delle imprese, come burocrazia, energia e accesso al credito”.
Per l’Italia, gli Stati Uniti sono un mercato fondamentale. A livello mondiale, infatti, rappresentano il maggior acquirente di olio d’oliva: per rispondere alla domanda dei consumatori americani, sempre più attenti alla salute, sono obbligati a importare il 95% dell’olio d’oliva di cui hanno bisogno. Gli States sono anche il secondo consumatore al mondo di questo prodotto, con una media di circa 370.000 tonnellate l’anno: entro il 2030 potrebbero superare i consumi dell’Italia. “In virtù di queste caratteristiche, gli americani sono disposti a pagare un costo non proprio economico per il nostro extra vergine, accettando quindi anche i dazi, se sono ragionevoli. Il nostro augurio è che proprio le qualità salutistiche dell’olio d’oliva siano riconosciute, inserendolo nella lista dei prodotti esenti da questa tassa”.
FEDERPRIMA: EVITATA ESCALATION, RESTANO INCERTEZZE PER L’AGROINDUSTRIA
“L’accordo raggiunto tra Unione Europea e Stati Uniti evita un’escalation tariffaria che avrebbe rischiato di compromettere ulteriormente gli scambi commerciali transatlantici. Tuttavia, non possiamo ignorare le molteplici incognite che gravano sull’agroindustria italiana”, sottolinea Silvio Ferrari, Presidente di FederPrima, la Federazione italiana delle imprese dei cereali, della nutrizione animale e delle carni costituita da Assalzoo, Assocarni e Italmopa.
L’intesa fa anche riferimento a un principio di dazio zero reciproco su determinate categorie merceologiche: elemento che, se attuato in modo coerente, potrebbe rappresentare un passo avanti nella liberalizzazione degli scambi. “Si tratta certamente di un principio significativo” osserva Ferrari “ma prima di trarne valutazioni positive è fondamentale comprendere quali settori ne beneficeranno concretamente, e se l’agroindustria italiana sarà inclusa tra questi”.
In assenza di dati ufficiali e di una chiara definizione delle categorie esentate non è ancora possibile esprimere una valutazione realistica sull’impatto economico dell’accordo. “Chiediamo massima trasparenza da parte delle istituzioni e l’apertura immediata di tavoli di confronto con le rappresentanze produttive”, conclude Ferrari. “È necessario monitorare con attenzione sia lo sviluppo delle misure applicative, sia i termini dell’accordo in materia di importazione delle commodities energetiche dagli Usa e, se del caso, prevedere strumenti di sostegno per i comparti più esposti, a partire proprio dall’agroindustria”.