Brand loyalty, gli effetti della crisi

Brand loyalty, gli effetti della crisi

Che effetto ha la crisi dei consumi sul livello di fedeltà tra marche e clienti? Quanto le sollecitazioni a un acquisto razionale e ragionato e le offerte promozionali mettono alla prova la loyalty ai prodotti e ai brand preferiti, così come alle insegne distributive? Su queste domande si è imperniato il convegno annuale dell’Osservatorio Fedeltà del Dipartimento di Economia dell’Università di Parma, svoltosi lo scorso 26 ottobre nel campus universitario parmigiano. Ecco alcuni dei contributi principali al dibattito. “Oggi, i programmi loyalty – afferma Cristina Ziliani, docente di Marketing relazionale all’Università di Parma – hanno in misura crescente tra i propri membri i consumatori della generazione ‘millennials’, che apprezzano queste iniziative come i baby boomers che li hanno preceduti, ma hanno anche aspettative diverse: amano usare le applicazioni per i cellulari di tali programmi e vorrebbero utilizzare il proprio smartphone al posto della solita tessera di plastica. Sono molte le fonti poi che indicano come, indipendentemente dai fattori generazionali, i responsabili acquisti siano sempre più professionali nel fare la spesa, manifestino interesse per gli sconti immediati offerti dalle carte fedeltà, impieghino con maggior frequenza i buoni sconto e, infine, redimano più spesso i punti, convertendoli in denaro, o per l’acquisto di prodotti considerati indispensabili. In risposta a tali comportamenti i distributori e le società di servizi optano con maggior frequenza che in passato per gli sconti immediati o la conversione dei punti in contante. L’evoluzione della tecnologia, degli strumenti mobili in generale – e dello smartphone in particolare – fanno sì che i punti di contatto diretto con i clienti siano aumentati in misura considerevole: sempre più spesso i programmi di crm e fidelizzazione sono multimediali, per conquistare anche le nuove generazioni, superare vincoli logistici imposti dalle soluzioni offline e costruire banche dati digitali di indirizzi, con il consenso degli interessati, per comunicare con loro. Fenomeno ormai talmente diffuso da aver portato alla proliferazione di portali come Award Wallet, MileWise e Points.com che fungono da aggregatori di programmi fedeltà, consentendo confronti, accumulo di punti, verifica in tempo reale della loro scadenza”.
MAI BOMBARDARE I CLIENTI SUL WEB
Il 70% dell’industria di marca intervistata dall’Osservatorio dichiara di avere un database della clientela e, di questi, l’83% lo mantiene regolarmente aggiornato. Per il 43% delle aziende che hanno condotto attività di Crm la fedeltà della clientela è cresciuta negli ultimi 3-4 anni, a fronte dell’11% tra quelle che non hanno investito in quest’area. Le aziende di produzione, così come quelle di distribuzione, non devono tuttavia commettere l’errore di bombardare i clienti di comunicazioni. Nel 2011 in Usa i primi 100 distributori hanno inviato ciascuno ben 177 e-mail a ogni cliente. E almeno il 32% dei post di Facebook è a pagamento. Il risultato? Se nel 2009 era il 44% dei clienti a informarsi sul proprio programma loyalty sul portale web dell’azienda, nel 2011 tale percentuale è scesa al 18%. Nello stesso periodo la propensione ad aprire e leggere le offerte del loyalty program sul cellulare è passata dal 33 all’8%. Mentre sono sempre più gli utenti che adottano filtri estremamente selettivi per bloccare i post delle aziende su Facebook.
OLTRE IL DIGITALE, IL CASO MULINO BIANCO
Il mondo digitale, tuttavia, è solo uno dei punti di contatto tra il mercato e una brand importante, come ha spiegato Julia Schwoerer di Barilla citando un brand come il Mulino Bianco, che vanta una brand awareness totale dell’82,9%, con una penetrazione in famiglia dell’85,8% nel trimestre. La fedeltà al brand, costruita in quasi 40 anni, si basa sulla rilevanza, l’unicità e il valore percepito promossi in modo coerente con una strategia di relazione che vede in posizione privilegiata il prodotto stesso con le sue caratteristiche, ma comprende anche la sua presentazione laddove avviene la scelta d’acquisto, le campagne di comunicazione classica, le iniziative nelle piazze per avvicinare il pubblico e offrire delle esperienze uniche, l’impegno sociale e la sostenibilità e, infine, l’ascolto della clientela, oggi più facile anche grazie al web. L’attività realizzata nel portale ‘Il mulino che vorrei’ ha portato alla pubblicazione di 5.450 nuove idee, di cui 15 realizzate, 50mila utenti registrati, oltre 2,5 milioni di visite da marzo 2009, 47 sondaggi lanciati con una media di 14mila risposte per ciascuno.
L’IMPATTO DELLA MARCA LEADER
La forza della marca, e di quella leader in particolare, anche dal punto di vista psicologico, è stata dimostrata da un test empirico realizzato da Gianpiero Lugli, professore ordinario di Economia dell’Università di Parma, con la collaborazione del gruppo distributivo Interdis. Presentare sullo scaffale del pdv l’informazione che un certo prodotto è il più venduto della settimana (concetto simile al bestseller del settore discografico e dell’editoria, ma associabile anche al like di Facebook o alle stelle di TripAdvisor), infatti, paga. Per la maggior parte delle categorie analizzate l’esposizione dell’informazione ha provocato un ulteriore aumento delle vendite, che non si è manifestato nei negozi di un campione parallelo.
POWER IN THE MARKET O POWER IN THE MIND?
Cristina Colombo di Tns ha presentato lo studio ‘The commitment economy’, condotto su 8 categorie in 17 Paesi, mostrando come in ben il 42% dei casi i clienti non acquistano la marca preferita seguendo il ‘Power in the mind’ costruito con le attività di comunicazione e di marketing classici e below the line. Perché bisogna fare i conti anche con il ‘Power in the market’ , dove il contesto condiziona le scelte della propria clientela. Quali sono i tre fattori di mercato che lo fanno maggiormente? Innanzitutto la disponibilità economica (15%), poi quella fisica (7%) e, infine, la necessità di condividere la decisione con altri componenti della famiglia (4%).
LA CACCIA AL TARGET NON FINISCE MAI…
Non sempre, però, è facile intercettare la propria clientela: Sharon Glass di Catalina Marketing Italia ha dimostrato come il 53% dei consumi di una marca avviene al di fuori di quello che è definito il target demografico. E che per molte marche il 4% dei clienti rappresenta l’80% degli acquisti. Motivo per cui buona parte della comunicazione classica viene sprecata su contatti ‘inutili’. Uno studio di Kantar Media di fine 2011 ha rilevato che negli Stati Uniti, le aziende hanno programmato per il 2012 di investire il 49,9% dei propri budget in trade promotion, il 25,5 in pubblicità classica e l’11,6% in consumer promotion. Tre aree che assorbono la maggior parte dei loro investimenti, ma allo stesso tempo in calo rispetto al 2010. Gli unici strumenti in crescita, infatti, sono quelli che consentono un contatto personalizzato e mirato alla clientela: lo shopper marketing, che vale il 5,8% e cresce di un 1,6% e il digital marketing che vale quest’anno il 7,2% del totale investimenti, con una crescita del 3,3%. Piccoli segnali, ancora, che danno tuttavia il senso della direzione.

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