Made in Italy, il labirinto delle norme

Made in Italy, il labirinto delle norme

L’attenzione mediatica al tema del made in Italy ha assunto toni eclatanti negli ultimi mesi (la protesta di Coldiretti a dicembre con i maialini a Roma ne sono una testimonianza!). Ma occorre fare attenzione: la non corretta interpretazione delle norme può essere controproducente per lo stesso made in Italy.
La confusione ovviamente nasce dal fatto che esiste una stratificazione di norme, di matrice sia nazionale sia comunitaria, nonché una serie di diversi ordinamenti sanzionatori; con la conseguenza che il medesimo fatto potrebbe essere ascritto a diverse fattispecie con un altissimo rischio di sperequazione punitiva. Il fulcro della questione è comunque quello dell’origine della materia prima (sia per i prodotti trasformati che per quelli non trasformati), che sembra condizionare ogni vanto di italianità.
A livello comunitario il concetto di origine si trae dall’art. 24 del Reg. n. 2913/92  secondo cui  “Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi (ad esempio l’uno conferendo la materia prima e l’altro il know how necessario ai fini dell’elaborazione n.d.r.) è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.
A livello di codice doganale (che ha a oggetto tutte le merci) l’origine della materia prima non risulta dirimente. Ma i prodotti alimentari sono una categoria a sé stante: anche se  negli ultimi anni le richieste dei consumatori a proposito dell’origine della materia prima sono diventate sempre più stringenti.
Tant’è vero che il nuovo reg.to Ce 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori (che sarà applicabile dal 13.12.2014) stabilisce all’art. 2/3 let g) che “ai fini del presente regolamento, il Paese di origine di un alimento si riferisce all’origine di tale prodotto, come definita conformemente agli articoli da 23 a 26 del regolamento (Cee n. 2913/92 che istituisce un codice doganale comunitario”.
Il successivo art. 26 prevede l’obbligo di indicazione dell’origine nell’etichettatura di un prodotto alimentare “nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente Paese d’origine o luogo di provenienza”.
E’ quindi del tutto evidente che la normativa comunitaria ammette (tenuto conto del codice doganale) che un prodotto sia legittimato a vantare un luogo di origine ancorché quell’origine non sia totalizzante.
La disposizione va letta con il successivo comma 3 secondo cui “quando il Paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato e non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario” (da intendersi come l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50 % di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa –ndr):
a)     dovrà essere indicato anche il Paese d’origine o il luogo di provenienza di tale ingrediente primario;
oppure
b)    il Paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario è indicato come diverso da quello dell’alimento”.
In sostanza, la Comunità europea ci dice espressamente che può esserci “contrasto”, ma anche che questo può essere sanato con la precisazione dell’effettiva origine e ovvero della differente origine.
L’applicazione di questa norma è comunque condizionata all’emanazione di atti esecutivi da parte della Commissione europea.
Le cose si complicano a livello nazionale, in cui si è passati dalla l 204/2004, di conversione del dl 24 giugno 2004, n. 157, per la qualePer luogo di origine o provenienza di un prodotto alimentare non trasformato si intende il Paese di origine ed eventualmente la zona di produzione e, per un prodotto alimentare trasformato, la zona di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata prevalentemente nella preparazione e nella produzione”, sino alla più recente l 4/2011 ai sensi della quale “per i prodotti alimentari non trasformati, l’indicazione del luogo di origine o di provenienza riguarda il Paese di produzione dei prodotti. Per i prodotti alimentari trasformati, l’indicazione riguarda il luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale e il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione dei prodotti”.
In realtà, entrambe le leggi sono rimaste di fatto una lettera morta dal momento che la loro operatività è stata ancorata a decreti interministeriali di attuazione mai emanati, anche a causa delle censure poste dall’Unione europea oltre che dalle associazioni di alcuni settori produttivi.
L’ultima “incursione” è avvenuta con la modifica della  l. 350/2003 (sul “made in Italy”) introdotta dal dl. 83/2012 con la conseguenza che oggi l’art 4 comma 49 bis della l. 350/03 prevede che “costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti a evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sull’effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000”.
Le “due righe” hanno un effetto dirompente, in quanto sembra trattarsi di una vera e propria deroga al principio generale di origine come ultima trasformazione sostanziale. Sul punto è comunque in corso un acceso dibattito posto che la norma tecnica, rientrante nelle attribuzioni dell’Unione europea, non risulta essere stata notificata alla Commissione così come previsto dalla direttiva 98/34/Cee.
A fronte di tale situazione gli operatori non possono che dirsi disorientati e scoraggiati. Sono infatti all’ordine del giorno contestazioni, spesso di carattere penale, basate sull’intransigente interpretazione dell’ultimo inciso del comma 49 bis dell’art. 4 della L. 305/2003 (sopra citato) secondo cui  un marchio di italianità può ritenersi legittimo solo a fronte di una lavorazione sostanziale avvenuta in Italia con materia prima coltivata o allevata in Italia. Senza considerare le iniziative delle associazioni di consumatori che rivendicano l’obbligo dell’indicazione dell’origine dell’ingrediente primario a fronte di una normativa ancora in fase di dettaglio.
La partita è aperta. L’unico auspicio è che le prese di posizioni o le provocazioni non pregiudichino gli operatori che hanno fatto del  know how italiano il valore aggiunto dei prodotti nazionali.

Avv. Gaetano Forte
www.avvocatogaetanoforte.it

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