Pronti per il we-commerce?

Pronti per il we-commerce?

Da noi non ha quasi fatto notizia, ma al di là dell’oceano l’algoritmo dei sentimenti si è conquistato parecchio spazio sulle pagine del New York Times: all’interno di un’inchiesta esclusiva è stato presentato un raffinatissimo software, che sarebbe in grado di registrare anche i più impercettibili movimenti del volto e i cambiamenti di colorazione della pelle per decifrare le emozioni umane. Ovvie le applicazioni pratiche, soprattutto in campo commerciale, per catturare le reazioni dei consumatori davanti a uno scaffale, a una pubblicità a una promozione. Mettendo per un attimo tra parentesi il dibattito sull’inquietante evoluzione che l’applicazione di questo software potrebbe avere, si apre un’interessante domanda sull’effettiva utilità commerciale di una simile ‘esplorazione dell’anima’ (e di tutte le tecnologie che vengono sfornate per renderla possibile). La sensazione, infatti, è che negli ultimi anni si sia verificato un netto scollamento tra le strategie di vendita delle imprese e quelle di acquisto dei consumatori: mentre le aziende si sono sempre più concentrate a conquistare il consumatore all’interno del punto vendita (spostando a valle gli investimenti pubblicitari), i responsabili d’acquisto sono diventati sempre più ‘impermeabili’ alle azioni in store, sviluppando comportamenti d’acquisto più meditati e razionali, tornando a modelli di spesa più programmati e meno d’impulso, riducendo drasticamente le scelte fatte negli ultimi ‘fatali 10 secondi’ tra le corsie di un supermercato. A confermarlo, gli ultimi risultati dell’Osservatorio fedeltà realizzato dall’Università di Parma, che ha preso in considerazione un significativo campione di shopper: “Per capire se prevale un atteggiamento più orientato alla pianificazione oppure all’impulso – ha scritto Maria Grazia Cardinali, professore associato di marketing dell’Università di Parma – è stato costruito un indice di pianificazione degli acquisti per categoria che va da zero (non avevo pianificato l’acquisto) a 100 (ho pianificato l’acquisto del prodotto perché mi serviva). L’indice di pianificazione medio degli acquisti per categoria va da un minimo di 51,8 per la categoria patatine e snack a un massimo di 77,9 per il caffè. Nell’attuale contesto di crisi, sembra dunque prevalere un atteggiamento più orientato alla pianificazione. Nessuna categoria tra quelle analizzate ha indice di pianificazione inferiore a 50. L’indice di pianificazione medio per store va da 60,6 nell’ipermercato (format che stimola maggiormente gli acquisti d’impulso) a 73,4 nel format edlp (maggiormente orientato alla pianificazione)”. La cartina al tornasole di questa maggiore razionalità è la ritrovata capacità del consumatore di valutare il reale prezzo dei prodotti che compra: “lo scostamento tra prezzi reali e prezzi percepiti è minimo – conferma Cardinali -. Il 68,7% degli acquirenti si colloca in uno scarto tra lo zero e il 10%”. Definito questo quadro di riferimento, la ricerca arriva a tracciare tre cluster di clienti in cui è possibile raggruppare i consumatori italiani: il primo, quello dei working shopper, rappresenta il 10% del campione ed è composto da chi dedica molto tempo all’attività preparatoria della spesa; il secondo, quello dei grab & go shopper, rappresenta il 60% dei consumatori e pur dedicandosi un po’ meno all’attività preparatoria, non si sofferma tra gli scaffali e non cede all’acquisto d’impulso; il terzo, quello dei fast impulse shopper rappresenta circa il 28% del campione e identifica chi non si prepara all’acquisto e cede all’impulso. Morale: “Il consumatore – scrive Cardinali – decide sempre più fuori dal punto di vendita e ricercherà in futuro sempre più le informazioni facendo ricorso alle nuove tecnologie, che facilitano le attività preparatorie della spesa grocery. È evidente come, in un simile contesto, si renda necessario investire di più out of store e sui nuovi media”. Interessante che alle stesse conclusioni siano arrivati i relatori dell’ultimo Retail loyalty congress, che si è tenuto ad Amsterdam lo scorso settembre. Tra i tanti, l’intervento di Andreas Weigend, direttore del Social Data Lab della Stanford University, ha riportato l’attenzione di industria e distribuzione sulla grande ‘social data revolution’ che stiamo vivendo: il primo frutto di questa rivoluzione è la trasformazione del consumatore in un individuo sempre più ‘collettivo’, da analizzare non tanto in sè, quanto in rapporto alle sue relazioni, ai legami reali e digitali che stringe nelle tante community di cui ormai fa parte. Ancora una volta, uno shopper che va studiato fuori dal punto vendita, nei suoi comportamenti sociali, che sono poi quelli che maggiormente influenzano i suoi acquisti. Decodificare il suo stato emotivo davanti a un’offerta promozionale diventa infinitamente meno importante che capire quali sono i suoi amici (i cosiddetti ‘influencer’), quali gusti coltiva, che abitudini ha, che cosa sa e gli piace fare… Insomma il futuro del marketing starebbe nello studio delle relazioni, quello del commercio nel trionfo del we-commerce. Una bella sfida, che cambia ancora una volta lo scenario cui eravamo abituati. Ma che sembra molto più intrigante, umanamente parlando, della ricerca di software cattura-emozioni. Maria Cristina Alfieri

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