Cessione Esselunga, ecco due degli scenari possibili

Fondi di private equity o retailer internazionali a cominciare da Wal-Mart? Acquirenti diversi, strategie ancora più diverse
Cessione Esselunga, ecco due degli scenari possibili

La prossima – presunta – cessione di Esselunga è al centro del dibattito del mondo economico in queste settimane. E suscita molti interrogativi. Di certezze, almeno a sentire l’umore del mercato, ce n’è solo una: Esselunga diventerà straniera. Le cifre riportate da vari organi di stampa – dai 4 ai 6 miliardi di euro e anche oltre, a seconda se l’operazione dovesse coinvolgere o meno il consistente patrimonio immobiliare del gruppo – sono tali da rendere difficilmente ipotizzabile l’arrivo di un cavaliere bianco, anzi tricolore.

LE IPOTESI IN CAMPO – La quasi totalità dei concorrenti italiani di Esselunga non ha le spalle sufficientemente larghe per un investimento di queste proporzioni. In qualche altro caso (vedi Coop) – a prescindere dalla volontà e dalle reali possibilità finanziarie – c’è una storica diversità di opinioni, per usare un eufemismo, rispetto a Bernardo Caprotti (nella foto in alto) che costituirebbe un ostacolo insuperabile. Il pallino resta infatti saldamente nelle mani del fondatore di Esselunga, che avrebbe dato all’advisor Citigroup l’incarico di analizzare le eventuali offerte e non un vero mandato a vendere. Ma vendere a chi? Due le ipotesi avanzate dalla stampa finora: fondi di private equity esteri (si parla soprattutto di Blackstone e Cvc) o retailer egualmente stranieri, con il nome di Wal-Mart che fa più rumore di tutti. Due ipotesi che aprono, a giudizio di Food, scenari molto diversi. Vediamo perché.

SCENARIO 1: IL FONDO DI PRIVATE EQUITY – Detto in maniera molto grossolana, la strategia consueta dei fondi di private equity è acquisire un’azienda con un buon potenziale di crescita, affidarla a un management che sappia il fatto suo e dopo qualche anno ‘valorizzare l’investimento’, cioè venderla in tutto o in parte a un altro fondo, a un concorrente o quotarla in Borsa. In buona sostanza, passare alla cassa. D’altra parte i fondi devono remunerare i loro investitori e dunque applicano logiche finalizzate a questo scopo. Qui però emerge la prima ‘diversità’ del caso Esselunga: come si fa a far andare meglio un retailer che già adesso è al top italiano ed europeo per redditività a mq (circa 16mila euro, più che doppia rispetto alla concorrenza)?

I TEMPI DELL’INVESTIMENTO – I bilanci di Esselunga fotografano un’azienda che produce utili impensabili per molti dei suoi competitor: 290 milioni di euro nel 2015 (+37% rispetto al 2014, chiuso a quota 212 milioni) a fronte di un fatturato di 7.312 milioni di euro (+4,3% rispetto al 2014). Certo, quest’ultimo potrebbe crescere, le aperture di Roma e Genova sono nel mirino, di aree geografiche da coprire ce ne sono eccome. Però non va dimenticato che in molte delle zone più ricche d’Italia Esselunga c’è già ed è lecito pensare che in contesti diversi raggiungere quella stessa redditività a mq non sarà semplice.

OBIETTIVO CONTINUITÀ – Un’espansione meditata di un format di provata efficienza darà sicuramente buoni risultati, ma questo si concilia con i tempi di un fondo di private equity? Non sarà invece più probabile che un azionista squisitamente finanziario utilizzi le leve che gli sono più consone per vedere remunerato il proprio investimento? Scorporo di immobili, crescita esponenziale dell’indebitamento, dividendi straordinari e alla fine magari anche la quotazione in Borsa, che per inciso sarebbe tutt’altro che un male. Al di là delle vicende famigliari ed ereditarie, è scontato che Bernardo Caprotti sia interessato – e molto – al futuro della sua ‘creatura’ e voglia garantirle continuità, fedeltà a un modello di lavoro e sviluppo esemplare. Ma come questo sia possibile passando la mano a un fondo di private equity resta un interrogativo cui solo i fatti potranno rispondere.

SCENARIO 2: WAL-MART – L’elenco di retailer che negli anni avrebbero mostrato interesse per Esselunga è lungo e comprende anche Wal-Mart, che ora – secondo quanto riportato dal quotidiano la Repubblica – avrebbe ripreso in mano il dossier. In questo caso, sempre ragionando per ipotesi, la logica sarebbe di tutt’altro tipo. Con i suoi 482 miliardi di dollari di ricavi il colosso americano potrebbe agevolmente far fronte all’investimento, anche se va detto che le sue ultime mosse (l’acquisito per 3,3 miliardi di dollari del portale di e-commerce Jet.com) fanno pensare che in cima alle priorità ci siano l’online e il mercato domestico.

PERCHÉ ENTRARE IN ITALIA? – Il mercato italiano è in affanno, ma è pur sempre importante, ed Esselunga – oltre a essere un’ottima azienda – porterebbe in dote eccellenti competenze nel comparto dell’offerta alimentare. Quanto allo sviluppo dell’insegna, la capacità finanziaria di Wal-Mart sarebbe una garanzia, sebbene Esselunga non abbia mai sofferto di mancanza di risorse: gli investimenti degli ultimi 5 anni assommano a ben 1,8 miliardi di euro. L’Italia non è l’America, da noi le aperture a ripetizione (tipiche delle grandi catene a stelle e strisce) sono semplicemente impossibili per motivi che prescindono dalla dotazione economica.

L’INCOGNITA DELL’AUTONOMIA – In ogni caso, l’orizzonte temporale di un retailer sarebbe diverso rispetto a quello di un fondo di private equity. L’incognita sarebbe semmai legata al margine di autonomia che un grande gruppo internazionale lascerebbe a Esselunga, fermo restando che Wal-Mart è un impero abbastanza grande da poter contenere ‘province’ con caratteri di diversità. E qui si torna a un tema già accennato in precedenza: può essere un gruppo internazionale, con una propria storia e obiettivi di sviluppo globale, il ‘custode’ di un modello particolare come quello di Esselunga? Il dubbio deve aver sfiorato anche Bernardo Caprotti, a giudicare dal perimetro del mandato affidato a Citigroup. E forse anche stavolta la domanda che l’abile imprenditore milanese si pone non è a chi vendere, ma se vendere.

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