Esselunga si nasce o si diventa?

Il panorama della gdo italiana è frammentato, con imprenditori dalla personalità forte. L’arrivo di un player finanziario potrebbe – forse – innescare un processo di consolidamento.
Esselunga si nasce o si diventa?

In attesa di sapere se le tante indiscrezioni sulla cessione di Esselunga troveranno una conferma nei fatti, continuiamo a ragionare sulle possibili conseguenze. Delle differenze che, a giudizio di Food, sono implicite nell’identità del potenziale compratore – fondi di private equity o retailer internazionale – abbiamo già scritto, ma c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato: cosa accadrebbe nel nostro mercato? Quali effetti potrebbe avere il passaggio del testimone in Esselunga sul panorama distributivo italiano?

UN TERREMOTO PER IL MERCATO ITALIANO – Proviamo ad azzardare qualche risposta, senza certo l’ambizione di riuscire in poche righe a dare conto di tutte le infinite possibilità che un evento di tale portata aprirebbe. E ancora una volta, dal ventaglio dei tanti nomi che secondo indiscrezioni di stampa starebbero valutando di acquisire Esselunga, prendiamo quello di Wal-Mart, primo retailer mondiale. La scelta non è casuale: Wal-Mart è il prototipo della catena distributiva dalla politica commerciale aggressiva, centrata sull’everyday low price. E, diciamola tutta, nota anche per un atteggiamento non certo ‘morbido’ nei confronti dei fornitori. Il suo arrivo avrebbe l’effetto di un terremoto nel mercato italiano, che peraltro sta da tempo guardando con apprensione in direzione Nord-Est e precisamente verso il Quadrante Europa, zona produttiva di Verona dove ha aperto i suoi uffici una Srl dal nome inequivocabile: Aldi. Creata dalla Hofer – controllata austriaca del discounter tedesco Aldi Süd – la società ha avviato una ricerca di immobili (sia terreni che edifici) in tutto il Nord Italia più la Toscana, ma solo in comuni con un bacino di utenza di almeno 30.000 abitanti.

ASPETTANDO ALDI – Per i distributori (e molti produttori) italiani lo sbarco contemporaneo di Wal-Mart e Aldi sarebbe un incubo che si avvera. Secondo le ultime notizie di stampa, i primi discount Aldi dovrebbero aprire addirittura nel 2018 e non nel corso del prossimo anno – come era lecito attendersi – ma se anche quest’ultima voce si rivelasse fondata, cambierebbe poco. La vera differenza la farebbe il concretizzarsi di un’acquisizione, visto che Aldi pare intenzionato a rilevare qualche catena già attiva nel Nord Italia. Non si tratterebbe della potenza di fuoco di Esselunga, ma sarebbe comunque un passo importante per iniziare a far sentire la propria presenza.

IL FUTURO È LA GUERRA DEI PREZZI? – Se il mosaico dovesse davvero ricomporsi in questo modo – Esselunga in mano a Wal-Mart e Aldi con una propria rete di punti vendita da convertire e mettere a regime – nel giro di breve tempo in alcune regioni si alzerebbe l’asticella dell’efficienza e dell’aggressività necessarie per competere nel retail. Una guerra dei prezzi – in un mercato già adesso afflitto da deflazione e domanda debole – potrebbe mettere in difficoltà più di un distributore e impatterebbe molto anche sui fornitori, industria di marca compresa.

UN ‘ALIENO’ TRA LA GDO – Food ha già elencato gli interrogativi sollevati dall’arrivo a Limito di Pioltello di uno o più fondi di private equity nel ruolo di soci di maggioranza, ma sarebbe un errore immaginare che tali soggetti agiscano senza una visione strategica. Il panorama della distribuzione grocery italiana è così frammentato da rendere almeno teoricamente attuabile una politica classica del private equity, cioè il consolidamento progressivo di più realtà attorno a un nucleo forte, seguito da un processo d’integrazione e da un travaso di competenze e best practices. Certo, è difficile pensare che dopo un boccone grosso come Esselunga, l’eventuale acquirente abbia nel breve termine le risorse per fare altre operazioni simili, ma la finanza non manca certo della creatività e duttilità necessarie per arrivare allo scopo, per esempio con formule come gli scambi di pacchetti azionari che limitano l’esborso di denaro. E non è da escludere che un ‘alieno’quale in fin dei conti sarebbe un fondo di private equity nel retail alimentare italiano – possa trovare maggiore ascolto in un settore che è fatto anche di personalismi, tipici della nostra imprenditoria, e di contrapposizioni cristallizzate negli anni.

UN MODELLO DIFFICILE DA REPLICARE – Piuttosto c’è da chiedersi: Esselunga può avere questo ruolo di catalizzatore rispetto ad altri gruppi distributivi con caratteristiche simili e diverso presidio territoriale? E sarebbe possibile trasferirne almeno in parte gli elementi di successo? Il dubbio è lecito: le acquisizioni non fanno assolutamente parte del Dna di Esselunga e anzi lo stesso management dell’azienda in passato non ha fatto mistero di ritenerle anti-economiche. Il modello di Esselunga è un mix di dimensioni del punto vendita, location, composizione dell’assortimento, equilibrio dei reparti merceologici, layout e via dicendo, che funziona benissimo se preso nella sua interezza. “Acquistare un negozio, vorrebbe dire essere costretti a buttare giù tutto e ricominciare daccapo” sintetizzava un alto dirigente di Esselunga nel corso di un’inaugurazione. Insomma, l’efficace formula messa a punto nei decenni da Bernardo Caprotti e dai suoi manager sarebbe difficilmente esportabile in altri contesti aziendali.

IL GIGANTE E IL SOCIO DI MINORANZA – Questa regola, in base alla quale punti vendita Esselunga ‘si nasce’, anni addietro sembrava poter conoscere almeno un’eccezione. Non se ne sta parlando in queste settimane, nonostante le tante voci sul futuro di Esselunga, ma a quanto è dato sapere tra gli asset del gruppo c’è ancora il 25% di Grandi Magazzini e Supermercati Il Gigante, che Caprotti mise insieme nel 1998 rilevando le quote di vari azionisti. Un tentativo di scalata, si disse, stoppato dagli altri soci. In verità Giancarlo Panizza, fondatore de Il Gigante, anni fa in una conversazione con Food definiva quello operato da Caprotti “un investimento finanziario”. Difficile credere che fosse solo questo, nonostante effettivamente dei ritorni ci siano stati. Secondo ricostruzioni pubblicate a più riprese dai giornali, il patron di Esselunga avrebbe speso un centinaio di miliardi di lire nel 1998 e da allora ha incassato regolarmente i dividendi: 13,9 milioni di euro nei primi dodici anni (fonte: Corriere della Sera), altri 1,5 milioni di euro nel 2015 (fonte: Italia Oggi). Non ha però mai avuto accesso al Cda ed Esselunga e Il Gigante sono restate catene fieramente concorrenti.

UN NUOVO INTERLOCUTORE – Le personalità forti, nell’imprenditoria come nella vita, sono poco inclini alla mediazione e al compromesso. Magari con un interlocutore diverso – un fondo di private equity? – qualcosa cambierebbe. Dando così uno spiraglio a una possibilità cui anche Bernardo Caprotti sembra aver creduto almeno una volta e cioè che punti vendita Esselunga ‘si diventa’.

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