Auricchio e l’export, l’espansione continua

Oggi rappresenta il 35% del fatturato, ma l'obiettivo è arrivare a breve al 50%. Come? Alberto Auricchio, amministratore delegato, lo racconta nell'intervista esclusiva concessa a Food
Auricchio e l’export, l’espansione continua

Rappresenta uno dei pochi fortunati casi in cui il brand è diventato sinonimo di prodotto. Dici Auricchio e ti danno il provolone. E non potrebbe che essere così, visto che il gruppo che produce uno dei formaggi più pregiati del nostro Paese ha da sempre una quota, nel provolone, che arriva al 50% e lo esporta con successo in 58 paesi, all’interno di una delle più complete gamme di formaggi made in Italy, dalla mozzarella al Parmigiano Reggiano, passando per il gorgonzola. Duecento milioni di fatturato nel 2016 (con un incremento del 2% in Italia e dell’8% all’estero), l’azienda continua a crescere nonostante il mercato agroalimentare interno sia in affanno da anni. Ultima notizia: l’acquisizione di Cascine Emiliane per 7 milioni di euro. Abbiamo raggiunto Alberto Auricchio, amministratore delegato del gruppo che porta il suo nome, nello storico quartier generale di Cremona, dove tutto ha avuto inizio 140 anni fa.

Lo stabilimento Auricchio

Numeri positivi anche nel 2017?
Le previsioni sono di fare ancora un +3/4% a valore e pareggiare i volumi.

In un comparto che non sta andando molto bene…
È stagnante, in generale, il mercato alimentare. I consumi sono scesi del 5% negli ultimi cinque anni: i consumatori hanno ridotto del 15% gli sprechi e le famiglie si sono ristrette, passando da 4,1 a 2,9 componenti per nucleo. Di certo non trascurabile anche il “fenomeno” delle allergie e tutto ha concorso a ridurre gli acquisti.

Con qualche eccezione: nei formaggi crescono i prodotti Dop, light e bio.
Esatto. E noi abbiamo prodotti che vanno proprio in questa direzione. Da qui i nostri risultati positivi.

In quali canali andate meglio?
Nei negozi di vicinato, che per noi sono gli unici a registrare performance positive, in un contesto segnato dalla crisi delle grandi superfici. Oggi abbiamo un portafoglio di formaggi molto ampio, che è difficile proporre per intero ai partners della grande distribuzione. Abbiamo raddoppiato la rete di vendita, che è passata da 40 a 110 agenti, attraverso i quali cerchiamo di proporre tutta la nostra gamma di formagi. In Italia serviamo qualsiasi cliente con ordini di almeno 15 chili di prodotto, una soglia molto bassa.

Quanti clienti attivi avete?
Tra Italia ed estero ne abbiamo circa 5mila. Uno dei plus che ci riconoscono i clienti è proprio la gamma completa di prodotti di qualità, realizzati con le nostre ricette negli otto stabilimenti che abbiamo in Italia, che fanno formaggi esclusivamente con latte italiano.

Niente discount per ora?
Per il momento no, ma non sono da escludere. Anche perché hanno cambiato pelle: fino a cinque/sei anni fa non avevano né promozioni né brand, oggi fanno quasi più promozioni dei supermercati e hanno fatto entrare le grandi marche.

Quindi?
Stiamo valutando, ma dobbiamo stare attenti all’equilibrio dei prezzi sul mercato: essendo presenti in tutte le catene della grande distribuzione, se volessimo approcciarci al discount dovremmo pensare a pack e pezzature diverse. In passato abbiamo avuto un’esperienza non positiva: abbiamo fatto un test in un discount che, nonostante gli accordi presi, faceva prezzi per noi inaccettabili e abbiamo dovuto interrompere i rapporti.

Parliamo di export. Avete una quota di fatturato all’estero del 35%: a che percentuale volete arrivare nei prossimi anni?
Io ho sempre avuto il pallino dell’export: non a caso la percentuale di fatturato che realizziamo oltreconfine è di dieci punti sopra la media del settore. E potrebbe arrivare al 50% a patto di non penalizzare la crescita interna.

Su quali Paesi state concentrando l’attenzione?
Oggi siamo presenti in 58 paesi, ma è evidente che in alcuni dobbiamo potenziare le nostre attività, per esempio in Argentina e Brasile: Paesi difficili, perché sono grandi produttori formaggi, ma dalle enormi potenzialità. Poi ci sono le grandi scommesse, come la Cina, dove siamo già presenti, ma possiamo crescere moltissimo (basterebbe anche solo riuscire a vendere i nostri prodotti ai 120 milioni di europei che vivono lì!) o l’India, dove non siamo ancora entrati, ma credo che potremmo avere ottime chance.

Poi ci sono i mercati storici…
Gli Stati Uniti, per esempio. Se solo riuscissimo a recuperare il 10% dell’italian sounding realizzato lì, potremmo fare una crescita enorme.

Sono passati due anni dall’acquisizione di The Ambriola Company, il vostro importatore negli States: qual è il vostro bilancio?
Estremamente positivo. Abbiamo fatto questo passo impegnativo, perché gli Usa rappresentano per noi il primo mercato di riferimento fuori dall’Italia e la scelta si è rivelata vincente: l’investimento che pensavamo di recuperare in dieci anni ritornerà nella metà del tempo.

Che cosa ha funzionato bene?
Non c’è stato alcun trauma sul mercato e siamo entrati direttamente nelle strategie commerciali del management. Abbiamo anche constatato che avere una presenza diretta sul mercato fa percepire l’azienda dai clienti in modo diverso. Ti vivono come produttore, non come importatore, quindi il rapporto è decisamente migliore.

Con quali catene lavorate?
Con tutti i maggiori player, da Sam’s a Wal-Mart a Costco, ma siamo forti anche nelle catene locali, che negli States hanno comunque enormi dimensioni, come Shoprite che copre l’area di New York e del New Jersey e Publix in Florida. Adesso l’obiettivo è crescere anche sulla West Coast, da Seattle (area che sta diventando molto interessante) fino al confine con il Canada da una parte e la Bassa California dall’altra.

Qual è il modello ideale per entrare in un mercato estero?
Dipende. Ci si può appoggiare a un importatore o stringere rapporti diretti con le grandi catene. Non esiste una formula predefinita, dipende dai mercati, dal contesto e anche un po’ dalla fortuna.
La differenza la fa soprattutto la capacità di trovare gli interlocutori giusti, capaci di capire che fai un prodotto mediamente caro, ma di alta qualità, che magari all’inizio non garantisce grandi numeri, ma che può porre le basi per costruire un business solido. Posso fare due esempi che sono molto esplicativi: durante Expo 2015 è passata dal padiglione Federalimentare/Cibus (dove noi eravamo presenti) una delegazione kazaka: mai avrei immaginato di lavorare in Kazakistan e invece da quell’incontro è nato un rapporto di collaborazione che ci ha aperto quel mercato. Viceversa ho avuto un’esperienza negativa durante il Gulfood di Dubai. È venuto a trovarmi un importatore che lavorava in Iran interessato ai formaggi italiani e, dopo un breve colloquio, ho capito che non coglieva la differenza tra un Parmesan e un Parmigiano-Reggiano: gli ho detto che non avrebbe mai potuto essere un mio cliente e la collaborazione è finita lì.

Bisogna insistere ancora nel fare cultura sull’autentico made in Italy…
Assolutamente sì: è la condizione necessaria per la nostra crescita internazionale. E, a questo proposito, ritengo che oggi i nostri migliori ambasciatori siano gli chef italiani che lavorano in giro per il mondo, che vogliono e cercano prodotti italiani per le loro ricette e ci semplificano il lavoro di spiegare ai consumatori e ai buyer la qualità della nostra offerta. Bisognerebbe trovare una formula per certificare i veri ristoranti italiani all’estero (stabilendo parametri precisi, per esempio che abbiano almeno il 50% di prodotti italiani in menu): chi va al ristorante è un target che può spendere e potenzialmente può comprare prodotti premium come i nostri anche nei punti vendita della grande distribuzione. Prodotti come provolone, gorgonzola e pecorino vanno in qualche modo ‘spiegati’ per farne apprezzare
la qualità: se uno li degusta al ristorante, ha già capito come utilizzarli. Ed è pronto a comprarli anche per degustarli a casa propria.

Bisogna lavorare sulla cultura, ma anche sugli accordi internazionali. Siete soddisfatti del Ceta con il Canada?
Il Ceta è stato finora un successo a metà. Da una parte dimostra a
chi ha una visione miope che gli accordi commerciali favoriscono in modo rilevante le imprese italiane. Dall’altro però ha evidenziato delle aree che vanno migliorate.

In che senso?
Oggi il Ceta riconosce e protegge le Dop, cosa che prima in Canada non avveniva: la ‘ciliegina sbagliata’ è come il governo canadese ha ripartito le quote di chi può importare questi prodotti, modalità che penalizza i produttori esteri a favore di soggetti interni. In pratica il governo canadese ha assegnato il 50% di queste quote non a chi
già da anni importava e sviluppava prodotti italiani, ma a soggetti nuovi (agricoltori locali) o comunque a trasformatori non interessati
a importare l’eccellenza, perché un trasformatore è interessato a comprare cagliate o prodotti a basso prezzo per poi trasformarli in fusi o altri prodotti, quindi non importerà mai un certo tipo di Parmigiano o pecorino, provolone o gorgonzola. In questo modo si è dimezzata la nostra potenzialità di crescita.

La soluzione?
Cercheremo di rinegoziare gli accordi con il Canada per 2019 (perché ormai le quote 2017/2018 sono già state assegnate) in modo da favorire maggiormente i produttori delle eccellenze europee.

Per quanto vi riguarda, cosa fate in Canada e quanto prevedete di crescere?
Oggi in Canada fatturiamo due milioni di euro, con una quota del 50% sul provolone. La previsione per i prossimi quattro anni è di fare almeno il 50% di fatturato in più.

Altro nodo da sciogliere è quello della Russia: quanto avete perso con l’embargo e che speranze ci sono di recuperare?
Con l’embargo abbiamo perso sette milioni di euro dalla sera alla mattina. E l’ennesima doccia fredda è il recente annuncio di Putin di voler aprire sette caseifici in Russia: 170mila mq dove faranno anche il provolone. È l’epilogo di un’assurda vicenda che ha tagliato le gambe a un mercato in salute, dove il consumatore incominciava ad apprezzare i nostri prodotti e non era troppo attento al prezzo: le condizioni ideali per svilupparci.

E invece?
Invece si sono organizzati da soli. Sono andati in Argentina e Nuova Zelanda a prendere delle imitazioni e oggi il consumatore russo si è abituato a un altro gusto e a prezzi bassi. Anche dovesse riaprirsi il mercato, le opportunità per noi sarebbero in gran parte già perse.

Come valutate l’e-commerce?
Io sono convinto che in futuro avrà un peso sempre più rilevante anche nel settore alimentare, che oggi pesa ancora poco sul totale del commercio online. Ricordiamoci però che Amazon sta aprendo 2mila punti vendita fisici e ha appena acquisito Whole Foods: l’integrazione con il fisico sarà fondamentale per rendere ricca e completa l’esperienza d’acquisto. Per quanto ci riguarda, siamo a bordo della piattaforma CiaoGusto sviluppata dal Consorzio Italia del Gusto (del quale facciamo parte) in partnership con Ocado in Gran Bretagna. Siamo consapevoli di non poter realizzare i numeri che fanno amici come Noberasco, Filippo Berio, Zonin e Riso Gallo perché i prodotti freschi che produciamo sono molto più difficili da gestire dal punto di vista logistico: però continuiamo a investirci, consapevoli che il futuro va in quella direzione. Per lo stesso motivo stiamo cercando di lavorare con Alibaba in Cina. Iniziamo a seminare oggi, per essere pronti domani.

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