Il retail ai tempi della pandemia

Il mondo del largo consumo e tutto il settore della distribuzione stanno attraversando un momento di straordinaria discontinuità, raccontato dai dati e dalle analisi di IRI. Le ipotesi sui trend del secondo semestre, mettendo nel conto anche il ritorno del coronavirus

Nel mondo del retail e di riflesso in quello della produzione di largo consumo era opinione comune: il 2019 è stato un anno di grandi cambiamenti per il settore in Italia, di quelli che lasciano il segno. Lo abbiamo pensato e detto tutti. Ma non avevamo fatto ancora i conti con il 2020. Che lascerà una cicatrice nella storia dell’umanità. Le catene della Gdo e tutto il comparto alimentare hanno vissuto i mesi di pandemia da Covid-19 affrontando giorno per giorno la necessità di restare operativi, continuando a garantire ai consumatori la possibilità di fare la spesa, ma con tutte le problematiche connesse alle indispensabili misure per contrastare il rischio contagio.

Il fatto che le indicazioni dei tanti centri decisionali – autorità locali, regionali e nazionali – non fossero sempre tra loro coerenti, non ha di certo reso più semplice il compito. Va detto però che l’intero Paese è piombato in una situazione di emergenza, a fronte della quale la filiera del retail nel suo insieme ha comunque retto bene. Cosa di cui deve andare giustamente orgogliosa. Sono state settimane concitate, in cui non era consentito fermarsi a riflettere, tanta era l’urgenza nell’agire imposta dagli eventi. Ora, invece, è possibile riavvolgere il nastro, guardare a cosa è successo nel retail italiano. Con l’obiettivo di provare a capire cosa potrà accadere nel prossimo futuro, fermo restando che l’insidia più grande, il virus SARS-CoV-2, rappresenta ancora una minaccia concreta e la battaglia non è vinta.

Food, in collaborazione con IRI, propone a questo proposito un’analisi dei dati che meglio descrivono il periodo di grande discontinuità che il mondo del retail sta attraversando.

RETAIL: L’IMPENNATA DEGLI ACQUISTI

Un terremoto di vasta portata”. La metafora utilizzata da Gianpaolo Costantino, consulente di IRI, per descrivere l’impatto del coronavirus sul mondo del retail nazionale non lascia adito a dubbi. “Il primo effetto che abbiamo visto tutti è stata la crescita impressionante della domanda. Le vendite di largo consumo confezionato sono aumentate del 12% a valore nei mesi di marzo e aprile, cioè durante la cosiddetta Fase 1. Gli incrementi registrati in tutto quel periodo sono sempre stati a due cifre, toccando livelli che solitamente non si raggiungono nemmeno in occasione dei picchi legati alle festività natalizie. L’altro aspetto, persino più importante, è stata l’accelerazione di trend che erano in un certo senso sottotraccia e che sulla spinta dell’emergenza sanitaria hanno bruciato le tappe della loro evoluzione, e mi riferisco in particolare all’e-commerce. L’origine di tutto questo è evidente. Un elemento è stato il panico, diffusosi nel Paese all’indomani della scoperta dei primi focolai a Codogno, nel lodigiano. La corsa agli acquisti, che inizialmente ha messo in crisi la distribuzione, ha riguardato gli alimentari e prodotti come guanti, disinfettanti per la casa, cioè tutte le referenze in qualche modo riconducibili all’esigenza di sicurezza a fronte del fenomeno epidemico. Sono cresciuti i volumi, ma è cambiato anche il mix degli acquisti, con un’esplosione delle vendite di referenze per le preparazioni domestiche: farine, lieviti, uova, preparati per dolci. Nel solo mese di marzo questo mondo ha messo a segno un incremento di circa il 50% a valore. Allo stesso tempo sono cresciuti pasta, scatolame e tutti quei prodotti scelti in una logica di scorta alimentare, saliti attorno al +26% in marzo sempre a valore”.

Altra ‘famiglia’ merceologica con un trend a doppia cifra – all’incirca il +20% a valore in marzo – è quella degli alimenti con valenza salutistica e riconducibili a un concetto di benessere.

COME È CAMBIATO IL BASKET DI SPESA DEGLI ITALIANI

A mostrare l’effetto dirompente della pandemia sul basket degli italiani è il dettaglio delle 30 categorie di largo consumo confezionato che nel totale Italia hanno registrato la maggiore crescita a valore nelle 13 settimane comprese tra il 23 febbraio e il 17 maggio. Le referenze incluse da IRI nella voce ‘altro parafarmacia’ sono prime con +173,4%, seguite da guanti (+140%) e alcool denaturato (+136,6%). A questo trio di testa – che già di per sé rappresenta una perfetta sintesi della spesa ai tempi della pandemia – si accoda un altro prodotto icona della Fase 1, soggetto anche a vendite ‘contingentate’ relativamente al numero di pezzi acquistabili: il lievito di birra con +126,6%, tallonato da farine e miscele (+119%) e pizze/ preparati (+91,5%). Rientra pienamente nel quadro della forzata vita domestica il balzo, sempre a valore, dei coloranti per capelli (+83%).

I dati appena elencati raccontano una storia nota: oltre ai timori suscitati dalla pandemia, un ruolo fondamentale lo hanno giocato le restrizioni alla mobilità imposte nel periodo del lockdown e dunque la necessità di trovare tra le mura di casa una risposta a bisogni soddisfatti solitamente da canali e servizi extradomestici. “È una voce che ha avuto un’incidenza davvero considerevole – conferma Costantino in particolare per quanto riguarda il comparto alimentare. In base alle stime, circa un 6% delle vendite registrate lo scorso marzo di largo consumo, inteso nella sua accezione più ampia, sono dovute ad acquisti fatti per sopperire a pasti che nel pre-Covid erano appannaggio di bar e ristoranti. Se restringiamo l’analisi a un perimetro più consono, cioè il solo food & beverage, la quota sale al 7% circa e si è mantenuta attorno al 5% anche nei mesi successivi. Questa componente, cioè i consumi transitati dal fuori casa alla sfera domestica, ha influito molto sulle vendite della Gdo negli ultimi mesi e rappresenta una delle incognite del secondo semestre”.

L’E-COMMERCE BRUCIA LE TAPPE

A fronte di un canale – l’Horeca – che ha pagato uno scotto altissimo, ce n’è un altro che è cresciuto con una velocità più che tripla rispetto al pre-Covid. Ovviamente parliamo dell’e-commerce. “Se i punti vendita fisici della Gdo nel loro insieme sono cresciuti di quel 12% a valore indicato in precedenza – spiega Costantinol’online ha avuto una performance impressionante. Il suo ritmo di sviluppo si era attestato attorno al +40% negli ultimi due anni, ma negli scorsi mesi di marzo e aprile ha toccato il +140 per cento. In pratica è come se, sulla spinta dell’emergenza coronavirus, avesse anticipato tre anni di crescita”.

Il cambio di passo è stato repentino e ha spiazzato gli operatori del retail italiano che avevano una linea ‘attendista’ rispetto a questo servizio. Ma la domanda che si pongono molti è se si tratta di un fenomeno episodico, destinato a scemare con il progressivo ritorno alla normalità. “Per rispondere vanno analizzati due aspetti – premette Costantino –. Il primo è emerso da una ricerca condotta da IRI in collaborazione con il Rem Lab dell’Università Cattolica: tra coloro che hanno provato per la prima volta l’e-commerce, ci sono soprattutto persone che in precedenza erano riluttanti verso questa modalità di acquisto, perché ritenevano di non avere le competenze adatte. Trovandosi in una situazione del tutto eccezionale, hanno scoperto invece di essere in grado di fare la spesa online.

Il secondo elemento da prendere in considerazione sono, nuovamente, i trend di crescita dell’e-commerce, che in alcuni giorni della Fase 1 hanno toccato il +300% rispetto agli stessi giorni dell’anno scorso. Picchi così adesso non ci sono più, ma a distanza di mesi dall’inizio dell’emergenza, l’online è comunque rimasto stabilmente sopra il +100% sempre nel confronto con lo stesso giorno del 2019. L’impressione dunque è che sia un fenomeno duraturo e nemmeno più una nicchia, ma una fonte di acquisto fondamentale. Nel pre-Covid la quota dell’ecommerce sulle vendite a valore di largo consumo confezionato era pari allo 0,8% circa, mentre oggi siamo vicini al 2 per cento. Una soglia che potremmo anche superare a fine 2020, toccando quasi il 2,5% il prossimo anno. La pandemia non ha fatto altro che accelerare una tendenza in atto, come del resto è accaduto con lo smart working”.

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