Il Category? Non è un mestiere per tutti

L'asticella della complessità nella gestione degli assortimenti si è alzata. Ai benchmark tradizionali se ne aggiungono di nuovi. L'Ai promette di ridurre le asimmetrie informative, facendo evolvere le relazioni industria-retail in favore di negoziazioni scientifiche
Il Category? Non è un mestiere per tutti

La pronuncia in questo caso è rivelatrice. L’accento corretto della parola category, cade sulla “a”. Si tratta, infatti, di un termine sdrucciolo. Così come sdrucciolo, ovvero scivoloso, è il terreno in cui si muove questa disciplina. E questo perché la gestione degli assortimenti vive una fase di transizione parecchio complicata. Da un lato, occorre considerare che l’ultimo triennio ha fatto segnare una contrazione dei volumi, che impone di selezionare brand e prodotti in grado di garantire rotazioni e marginalità; dall’altro, va ricordato che la negoziazione al rialzo dei listini spinge verso una revisione che può portare anche a determinare cambi di fornitori.

Si è insomma alzata vistosamente l’asticella della complessità che riguarda la materia. Il risultato è che oggi il category non è un mestiere per tutti. Perché – come suggerisce Davide Pellegrini, Direttore del Master Gs1 Italy in Retail, brand & digital management dell’Università degli Studi di Parma, docente di Channel metrics e Presidente dello spin off T_ool – impone di monitorare un ampio e articolato set di informazioni. Un’operazione tutt’altro che banale, dal momento che nell’agenda di chi si occupa di assortimenti devono essere annotati – e affrontati – aspetti diversi, eterogeni e non sempre di facile lettura. I quali richiedono poi un complicato esercizio di sintesi.

FORMAT & GEOGRAFIA

Il primo aspetto da mettere sotto la lente è quello dei format. “Anche in Italia – nota Pellegrini – è finalmente arrivato il momento di decisioni radicali. Va fatta una scelta di campo: o ci si pone dalla parte del discount, che operano con 4-5.000 codici, oppure si decide per il modello degli specializzati, che gestiscono 15-25.000 codici. Stare in mezzo è complesso; anche se non impossibile, come dimostrano i nuovi tentativi di imitazione del modello Mercadona”.

In entrambi i casi, tuttavia, a fare la differenza è la professionalità di chi decide i mix. “Si pensi al successo ottenuto da Leclerc in Francia con gli ipermercati – osserva Pellegrini –, una formula che in Italia non riesce a uscire dalla propria crisi di identità e che oltralpe continua a funzionare solo nel caso di alcune insegne. Perché? La risposta rimanda ai category manager e alla loro capacità di selezionare assortimenti efficaci”.

Si potrebbe però obiettare che l’Italia è diversa dalla Francia. “Vero è – dice Pellegrini – che il nostro Paese è lungo e stretto e presenta una densità distributiva differente da quella transalpina. Ma vero è anche che esistono format capaci di assicurare una portata nazionale, sui quali occorre confrontarsi. Dobbiamo, insomma, tornare a studiare la geografia con l’aiuto dei servizi messi in campo da società specializzate”.

LA CONCORRENZA DELLA MDD

Da considerare c’è poi lo spinosissimo dossier che riguarda il guanto di sfida sferrato all’industria di marca dalla private label. Un punto nevralgico per la gestione degli assortimenti, perché l’avanzata della Mdd comporta, per sua natura, l’esigenza di una razionalizzazione dei prodotti presenti a scaffale. Che però potrebbe assumere coloriture diverse in funzione delle differenti merceologie. “La razionalizzazione ci sarà – afferma Pellegrini –, ma seguirà ritmi inerziali e non sarà uguale in tutti i reparti. In alcuni casi, infatti, la profondità continuerà a giocare un ruolo importante. E questo perché esistono categorie che lavorano anche sull’attrazione degli shopper, nelle quali la presenza di una specialità – leggi, un prodotto di nicchia – può giustificare un viaggio ad hoc”.

E non si tratta di mera teoria: la capacità che mostrano singole categorie o referenze di generare store switching è, infatti, attestata dai numeri. “Ne sono prova i discount – dice Pellegrini –: la loro penetrazione è vicina all’85%, ma la loro market share si ferma al 20 per cento. Perché? La risposta è semplice: questo format insiste su bacini geograficamente più ampi rispetto a quelli dei supermercati, ma vanta una frequenza di visita più bassa. E questo ne comprime la quota di mercato reale. I dati parlano chiaro: su una spesa familiare di 5.000 euro all’anno in prodotti grocery, la share of wallet dei discount non supera quasi mai il 25%”. Un indicatore generale già di per sé significativo, che può e deve poi essere analizzato e scomposto. “In questo modo – rileva Pellegrini – è infatti possibile individuare le categorie che portano gli shopper a mixare negozi diversi”. E agire di conseguenza.


L’immagine di copertina è opera di Giacomo Bettiol

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