
Produttività, efficienza e qualità: sono questi i tre plus che definiscono il successo della mangimistica. È il quadro che emerge dalla presentazione dello studio promosso da Assalzoo (Associazione nazionale tra i produttori di alimenti zootecnici) in collaborazione con Nomisma in occasione della celebrazione dell’ottantesimo anniversario della fondazione associativa. Lo studio restituisce la fotografia di un settore in grado di raccogliere la sfida della sostenibilità quando questa era ancora lontana dei riflettori del dibattito quotidiano. Il tratto essenziale che ha caratterizzato la crescita della mangimistica italiana è stato, fin dai suoi inizi, fare di più e meglio con meno.
MANGIMI E PRODUTTIVITÀ
Nello studio si identificano tre fasi temporali: la fase della crescita esponenziale che dura fino agli anni Ottanta, quella della professionalizzazione che abbraccia i decenni a cavallo del secolo, e la fase dell’innovazione permanente che caratterizza l’era della sostenibilità. A livello numerico, nella prima fase la produzione passa dalle 0,6 milioni di tonnellate degli anni Cinquanta a 11,1 della fine degli anni Ottanta, stabilizzandosi intorno ai 13 milioni di tonnellate nel passaggio anni Duemila, per poi arrivare a superare i 15 milioni di tonnellate negli anni recenti. Nel 1970 si producevano poco più 3,5 milioni di tonnellate in oltre 1.350 stabilimenti; nel 2023 oltre 15 milioni di tonnellate venivano prodotti in 417 stabilimenti. La produzione media per singolo stabilimento è passata dalle 2,7 tonnellate del 1970 alle 36,8 del 2023.
Una trasformazione “frutto di scelte imprenditoriali lungimiranti che hanno trasformato la potenzialità della zootecnia italiana”, sottolinea Assalzoo in una nota. “La garanzia di una disponibilità di mangimi, sicuri e con alta capacità nutrizionale, ha rappresentato il volano di spinta per il resto della filiera, innescando un processo virtuoso in termini di consumi, spesa e miglioramento delle caratteristiche dei prodotti alimentari di origine animale”.
L’EFFICIENZA
La dinamica impressa dalla trasformazione del settore mangimistico trova un diretto riscontro attraverso il cambiamento del cosiddetto “indice di conversione” (vale a dire la quantità di mangime utilizzata per ottenere un’unità di prodotto). Più il rapporto è basso, più efficiente risulta l’alimentazione; e ciò vale tanto in termini di costo (la spesa per nutrire un animale) quanto in termini di resa (miglioramento degli effetti nutrizionali). Dai dati raccolti nello studio risulta come, negli anni Sessanta, questo indice fosse per gli avicoli maggiore di 6 (sei chili di mangimi per ottenere un chilogrammo di aumento di peso vivo del capo), per i suini maggiore di 4,7 e per i bovini maggiore di 8.
Attualmente, anche grazie ai miglioramenti genetici delle specie allevate, questo indice si è notevolmente abbassato: 1,6 per gli avicoli con una riduzione di quasi il 50%, 2,7 per i suini con una riduzione di quasi il 40% e di 6 per i bovini con una riduzione di oltre il 30% rispetto agli anni ’60. In questa riduzione si misura la capacità di innovazione e di efficientamento che definisce il percorso della mangimistica: produrre di più e meglio con meno materie prime agricole. Questa capacità trasformativa è tanto il frutto di una ricerca industriale e scientifica quanto il risultato di un approccio costitutivamente sostenibile, che punta a limitare gli impatti ambientali, pur garantendo cibo di qualità per tutte le classi sociali.
LA QUALITÀ
Il riflesso dei miglioramenti legati alla produzione e all’efficientamento dei processi nutrizionali non rimane un risultato di natura esclusivamente industriale; esso si riflette innanzitutto nel miglioramento del benessere degli animali allevati. A loro volta, gli effetti delle trasformazioni derivanti dall’alimentazione mangimistica non si fermano al piano zootecnico, ma riguardano l’intera filiera dei prodotti alimentari di origine animale. Nello studio c’è un esempio estremamente significativo che testimonia proprio questa connessione migliorativa: è il caso del latte. Agli inizi degli anni Sessanta un bovino da latte produceva circa 4.127 chili di latte contenente una percentuale di grasso del 3,19%. Nel 2000 il livello di produzione era salito a 7.772 chili con una percentuale di grasso del 3,59% e una di proteine del 3,23%. Nel 2023 i dati si assestano a 9.932 chili, 3,90% di grasso e 3,40% di proteine. La progressione indica come la qualità del prodotto zootecnico vada di pari passo con il miglioramento dell’alimentazione animale. Un latte più grasso e più proteico è un latte con migliori indici nutrizionali e garantisce un ottimale apporto alimentare ai consumatori finali.