Le lezioni di Expo

L'Esposizione Universale ha rafforzato la convinzione che i nostri prodotti sono tanto più attrattivi per i buyer esteri quanto più vengono valorizzati dall’intero sistema Paese che gli ruota intorno
Le lezioni di Expo

Era inevitabile che il ‘day after’ di Expo si traducesse in una riflessione su che cosa questa gigantesca kermesse abbia lasciato in dote al Paese. Al di là dell’iniezione di ottimismo (che pure dà benzina alla ripresa economica) per aver vinto una sfida dai più definita impossibile, sicuramente un primo risultato di Expo è stato quello di aver attirato, oltre ai turisti, migliaia di operatori professionali che hanno potuto incontrare le nostre imprese e spesso avviare accordi commerciali: sono stati registrati oltre 4mila incontri b2b tra aziende italiane e buyer, retailer e distributori provenienti da più di 40 paesi in tutto il mondo. Ma ancora più interessante è stato il cambio di prospettiva che questi incontri hanno innescato: nel corso dei sei mesi di Expo, i nostri imprenditori hanno capito che i loro prodotti erano tanto più attrattivi agli occhi degli stranieri, quanto più venivano valorizzati dal sistema Paese che gli ruotava intorno. Si è maturata una maggiore consapevolezza del fatto che i buyer delle più importanti catene estere, prima ancora che i prodotti, vogliono ‘comprare’ il racconto di territori e di filiere che hanno enormi valori da esprimere. Expo ha costretto le imprese a fare squadra, non solo tra produttori, ma lungo tutta la filiera. Fondamentale, in questo ‘gioco’, il ruolo attivo svolto dal ministro Maurizio Martina che, presidiando Expo con un’encomiabile energia, non ha perso occasione per rimarcare (da ministro dell’Agricoltura!) l’importanza e il peso dell’industria manifatturiera in Italia, proprio nell’ottica di creare più coesione e collaborazione a livello di filiera. E forse non è un caso che, proprio nei mesi dell’esposizione universale, per la prima volta diversi attori del sistema fieristico italiano abbiano unito le forze per presidiare l’Fmi di Chicago, dove il ministero per lo Sviluppo economico ha presentato il suo piano di comunicazione per sostenere i prodotti autentici italiani sul mercato americano. E a proposito di made in Italy, Expo è stata anche l’occasione per riflettere sul fatto che, forse, la battaglia per far fare ai nostri prodotti dei passi avanti sui mercati internazionali è ora di giocarla più in attacco che in difesa.

È sacrosanto tutelare le nostre tipicità contro il dilagare dell’Italian sounding (che ha raggiunto il giro d’affari record di 60 miliardi di euro), ma è altrettanto doveroso capire che oggi i nuovi compe-
titor non sono solo gli imitatori, quanto una miriade di imprese estere ben radicate sul loro territorio, che stanno crescendo puntando su una produzione di qualità. Ecco perché bisognerebbe concentrarsi un po’ di più sull’attacco, elaborando più efficaci strategie di marketing e comunicazione perché, per noi, ‘vendere’ una storia, un territorio, una filiera, può essere un elemento distintivo, ancora capace di fare la differenza. Chi sta crescendo di più all’estero, lo ha capito e lo sta già facendo molto bene. Ce lo ha raccontato, tra gli altri, Giovanni Rana, proprio durante un convegno organizzato in Expo da Kpmg e Fiere di Parma, in collaborazione con il nostro magazine. Rana ha aperto addirittura un negozio a New York per far ‘toccare con mano’ ai buyer americani che cosa sta dietro i suoi prodotti, spiegandone la lavorazione, l’origine e la storia e mettendosi in gioco, come ha sempre fatto, in prima persona. È da sempre talmente convinto della qualità della sua offerta che non ha mai perso tempo a giocare in difesa, anzi. “A volte bisogna anche impiegare un po’ d’astuzia – ci ha confessato –. Non solo non ho mai detto che i prodotti americani non sono di qualità, ma ne ho spesso lodato il valore dicendo, come effettivamente penso, che anche negli Stati Uniti ci sono delle ottime materie prime e si possono mettere sul mercato prodotti molto validi. Il risultato? Le mie dichiarazioni sono state riprese da tutti i principali giornali americani. Parlando bene di loro, ho finito per fare una straordinaria campagna pubblicitaria (a costo zero) anche per i miei prodotti!”. Sarà un caso, ma Rana in America cresce a ritmi che superano il 20% ogni anno. Qualità, storia, cultura di prodotto e un po’ di astuzia comunicativa. Una ricetta che funziona più di qualsiasi altro strumento per battere l’Italian sounding.

di Maria Cristina Alfieri

 

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