Forza Italian Food

Dopo i tanti commenti positivi all’editoriale ‘Un nuovo modello di sviluppo’ pubblicato su Foodweb una settimana fa, Paolo Dalcò torna sull'argomento, entrando nel merito di metodi e categorie di prodotti su cui puntare per la ripresa

Partiamo dalla storia. Forse non tutti sanno che il primo libro di ricette di cucina fu scritto da un siciliano: Archestrato di Gela, 350 anni prima di Cristo. Anche la grande cucina francese fu inventata da nostri antenati. Caterina de’ Medici, infatti, sposandosi nel 1533 con il Duca D’Orléans, portò a Parigi la ‘brigata’ di chef che aveva a Firenze, i quali introdussero diverse ricette e tecniche di cottura. E la pizza? Fu inventata da Raffaele Esposito, a Napoli. La preparò con pasta, pomodoro, mozzarella e basilico per la regina Margherita di Savoia, in visita a Napoli nel 1889. Dal quel giorno tutti la chiamarono, e la chiamano ancora, pizza Margherita. Un altro napoletano, Gennaro Lombardo, aprì la prima pizzeria a New York nel 1905. Oggi le pizzerie italiane nel mondo sono 127mila, e utilizzano farine e salse di pomodoro. Un ingrediente, il pomodoro, che fu coltivato prima in America del Sud e poi in Europa, portato dagli spagnoli. In un ricettario, scritto da Vincenzo Corrado a Napoli nel 1773, si trovarono ben tredici ricette di salse di pomodoro. Un’altra nostra specialità è il gelato. Fu preparato per la prima volta dai Romani nel 37 dopo Cristo. Poi Marco Polo, rientrando dalla Cina, portò alcune antiche ricette di gelati alla frutta a Venezia. Oggi ci sono 100mila gelaterie nel mondo, di cui 60mila in Europa e, tra queste, 39mila in Italia. E la pasta? Si racconta che Marco Polo, rientrando dal suo viaggio in Cina, portò la pasta, prima in Italia, e poi in tutto l’Occidente. Questa almeno era la convinzione di alcuni americani, che però fu smentita dopo il ritrovamento di alcuni scritti medioevali del filosofo arabo Ziryab, il quale nel 1058 raccontò in un suo saggio che nel sud Italia si mangiava pasta. Anche Fra’ Salimbene da Parma, nelle sue Cronache pubblicate nel 1221, scrisse delle abitudini alimentari di un suo confratello, la cui dieta era a base di pasta. Parliamo ora di salumi e di formaggi. I primi salumi furono preparati nell’antica Roma e poi esportati in Inghilterra e in Francia. Oggi in Italia abbiamo 31 salumi Dop e Igp. Mentre Charles De Gaulle si chiedeva come si potesse governare un Paese, come la Francia, con 246 varianti differenti di formaggi. Tuttavia De Gaulle non sapeva che in Italia c’erano, e ci sono ancora oggi, ben 487 formaggi, tra freschi e stagionati. Molto apprezzati anche in Francia, che è diventata uno dei principali mercati per i nostri prodotti alimentari. Ora parliamo di olio. Nell’antica Grecia e a Roma, era il bene di consumo più richiesto. Il motivo? Si credeva conferisse forza e giovinezza. L’Italia oggi è fra i produttori principali di olio extravergine d’oliva, ricavato da circa 30 varietà di olive coltivate. Per non parlare dell’aceto balsamico, comparso nel 1747 per la prima volta nei registri delle cantine del Palazzo Ducale di Modena, situate a Rubiera.

Sono questi i prodotti e le specialità gastronomiche più esportate all’estero. Per un valore di fatturato pari a 40 miliardi di euro ogni anno. Senza considerare il fatturato che Ferrero, Barilla, Rana, Perfetti, Campari, Bolton, San Benedetto, Branca, Citterio, Beretta, Colussi, Veroni e altre imprese generano con le industrie che hanno aperto, o acquisito, all’estero. Se poi aggiungiamo le pizzerie e le gelaterie, il fatturato globale dell’italian food è di alcune centinaia di miliardi di euro, dei quali 140 fatturati in Italia. Senza considerare l’Italian sounding. Insomma sono numeri importanti che non possiamo perdere per la pandemia in corso. La ristorazione oggi si è fermata. Pesa circa 1/3 dei consumi in Italia, mentre negli Usa aveva superato il 50 per cento. Alcuni ristoratori e pizzaioli in questi mesi si sono organizzati per consegnare menù e pizze a domicilio o per consegnare i kit completi per cucinare le specialità italiane. Ma la crisi è forte e ci vorrà tempo per tornare come prima. Sono anche sospese le fiere e altre manifestazioni per cercare di vendere all’estero.

Diversi sono i consulenti ed esperti improvvisati che non conoscono le catene, le persone e soprattutto le esigenze di questi mercati. Chi lavora all’estero sa bene quanto sia difficile sviluppare business e avere la sicurezza di essere pagati. Le contestazioni sulle forniture, i container spariti e addirittura gli sconti richiesti all’atto del pagamento sono alcuni degli incidenti di percorso capitati a diverse aziende italiane. Per questo, definire contratti con clausole precise e soprattutto assicurare tutti i crediti è diventato non solo necessario, ma indispensabile. Alleanze e sinergie fra imprese poi sono sempre più necessarie. Molto attivi sono per esempio Divella, La Doria, Granarolo e Auricchio, che con società d’importazione e distributori, sviluppano business all’estero, anche esportando prodotti di altre marche. La presenza in loco con persone esperte e introdotte sarà sempre più una referenza. Diverse catene oggi vogliono approvvigionarsi direttamente dai produttori, scavalcando importatori e grossisti che in ogni nazione sono presenti. Così come strategico è essere referenziati presso catene come Eataly, Whole Food, Waitrose e Costco, per citarne alcune. Anche Coop Italian Food ha stipulato un grande accordo con Walmart in Canada, dove sono distribuiti in tutti i punti vendita i prodotti premium della private label di Coop come fiorfiore e viviverde. Alcune iniziative consortili, inoltre, come Italia del Gusto, Tradizione Italiana, Il Buon Gusto Italiano e Gradita sono opportunità per fare sistema. Anche se questi consorzi si muovono da soli e senza incentivi pubblici. Sono queste le imprese che possono sviluppare business all’estero, perché sono quelle più organizzate, hanno capacità produttive e affidabilità. L’ICE ha stanziato 750 milioni di euro per incentivare l’export del made in Italy, e i prodotti food fanno la parte del leone. Il ruolo dell’ICE è stato ed è fondamentale. Oggi ha scelto di fornire consulenze sui mercati esteri a titolo gratuito. Una scelta encomiabile. Soprattutto per le piccole imprese. Ma per non perdere parte degli oltre 40 miliardi di fatturato esportato, bisogna evitare sprechi e contributi a pioggia come spesso è stato fatto nel passato. Nel recente passato per vendere all’estero la leva del prezzo era quella che veniva azionata per esempio con il Prosecco o con i prosciutti di Parma. La predominanza di questi prodotti, nei prossimi mesi, sarà ridotta a vantaggio dei prodotti di specialità premium, forniti da aziende di marca riconosciute e venduti a prezzi più alti. Sono proprio i prodotti premium e speciality food quelli sui quali concentrare  gli investimenti. In particolare, in queste categorie: aceto balsamico, acqua minerale,  bevande di frutta, burro, caffè, carni (bianche, bresaola, di manzo proveniente da allevamenti che certificano e controllano il benessere degli animali), cereali, cioccolati e creme, dolci e biscotti, farine speciali,  fette biscottate integrali, formaggi (gorgonzola e a pasta dura), frutta secca e fresca affettata, gelati e sorbetti, kit e box, ittico conservato, latti speciali, latticini, legumi, miele, muesli, olii tipici, pasta secca integrale, pasta fresca e gnocchi, pani speciali, piatti pronti, pizze e focacce, riso, salumi (affettati, cotti, mortadella, salami), semi, soia, sughi al pesto e polpa di pomodoro, snacks, sott’oli e sott’aceti, surgelati, uova e preparati, vegetali, verdure in busta, vini senza solfiti aggiunti, yogurt (greco e alla frutta naturale in pezzi). Importanti sono e saranno i prodotti Dop, Igp, tipici e specialità. Prodotti buoni, fatti con ricette con pochi ingredienti, meno grassi e meno additivi, coloranti, addensanti, conservanti e solo aromi naturali.

Anche le emergenze sanitarie, che si sono ripetute ogni dieci anni, d’altra parte hanno contribuito ad aumentare il livello di attenzione dei consumatori per la qualità e salubrità dei prodotti che portano in tavola. Ricordo nel 2000 la mucca pazza, nel 2019 la peste suina e ora il Coronavirus. Negli anni successivi alla prima epidemia, i consumatori allarmati hanno ridotto gli acquisti di prodotti convenzionali e aumentato i consumi di prodotti biologici, considerati più sani e sicuri. Sarà così anche quest’anno? Sembrerebbe di sì. A giudicare dai forti incrementi delle vendite di prodotti biologici. Il fatturato generato in Europa supera i 40 miliardi di euro. In aumento sono anche i terreni coltivati e i coltivatori, così come gli allevamenti che tutelano il benessere degli animali. L’Italia occupa la terza posizione in questo segmento di mercato, dopo Spagna e Francia, con oltre 2 milioni di terreni coltivati bio, 79 mila addetti e un fatturato di circa 4 miliardi di euro. Le due regioni più bio d’Italia sono la Puglia e la Sicilia. Ma come si comportano le industrie di marca verso questo mercato, spesso in mano a piccoli produttori artigianali? Nell’avicolo, dopo il successo ottenuto da Fileni, si è mosso anche Amadori. Nelle uova Eurovo e Aia hanno molti prodotti bio. Nei salumi lo specialista è Fumagalli, ma sono entrati anche Citterio, Beretta, Italia Alimentare. Quasi tutti i produttori di olio di oliva extravergine e di aceti hanno prodotti bio nella loro offerta. Anche i produttori di pasta hanno sposato il bio, come Barilla, De Cecco, Buitoni, Del Verde. Ma anche Granoro, La Molisana, Rummo, Armando, per elencarni solo alcuni. In questa categoria lo specialista è Felicetti, un piccolo produttore trentino. Sia Felicetti, con la pasta, sia Fumagalli, con i salumi, producono per le marche private di importanti retailer mondiali. Nei sughi e salse di pomodoro sono entrati Cirio, Barilla, De Rica, De Cecco, Rodolfi, Pomì, per fare qualche esempio. Anche nel caffè molti produttori hanno una linea bio come Lavazza, Segafredo, Caffè Motta e molti altri. Nel latte, latticini, formaggi freschi e stagionati ci sono Granarolo, Galbani, Parmalat, Parmareggio, Igor, Newlat, Nonno Nanni e molti altri. Anche nella pasta fresca, Rana e Fini hanno questo tipo di referenze. Gallo e Scotti hanno riso bio e gallette di riso. Fra i produttori di frutta Melinda, Marlene, Apofruit e Vog. Lo specialista italiano del biologico è Alce Nero, che raggruppa oltre mille agricoltori e apicoltori e produce pasta, olio extravergine d’oliva, composte di frutta, polpa di pomodoro, frollini, miele, tavolette di cioccolato e caffè. Nelle bevande e succhi San Benedetto e Conserve Italia e molti altri. Diversi i produttori di vino come Antinori, Fontanafredda, Masi Ceretto e Fontanafredda. Insomma sui prodotti bio stanno investendo in molti anche se, comunque, rappresentano una nicchia di mercato che difficilmente diventerà mainstream. Lo sostiene Renzo Rosso, il patron di Diesel e di Natura Sì, quando afferma: “Il bio è il lusso del cibo”. Ma un’associazione, Coldiretti, e il suo cardinal Richelieu, Vincenzo Gesmundo, potrebbero convincere i loro associati a incrementare le produzione bio da parte dei 1.6 milioni di agricoltori associati. Un altro ruolo fondamentale, in questa partita, potrebbero giocarlo Coop e Conad, riuniti insieme in Legacoop. L’Italia potrebbe imitare così quello che è stato fatto in Australia, dove oggi 35 milioni di ettari sono pascoli e coltivazioni bio, a vantaggio dell’ambiente. Le api sono ritornate a impollinare i fiori, i lombrichi, che sono fertilizzanti naturali, e le lumache si trovano sui campi. Insomma un’economia sostenibile applicata. E i prodotti che ne derivano sono molto richiesti anche all’estero. Le specialità italiane e i prodotti bio potrebbero essere una leva cruciale per dare ulteriore spinta al Made in Italy. Un futuro fatto più di qualità che di quantità, con meno volumi, ma più margini. Con una “spersonalizzazione” nei rapporti dovuta alla digitalizzazione che sarà necessaria. Con più enfasi sul valore delle competenze e dell’esperienza, sempre più necessari per gestire quelle che sono e saranno le nuove modalità di gestione dei rapporti con i clienti e con i fornitori. Dove i giovani saranno i protagonisti grazie alla loro conoscenza di linguaggi e la loro interconnessione. Ma affiancati da manager esperti di mercati esteri. Per mettere in pratica il nuovo modello di business imperniato sul food.

Paolo Dalcò
Paolo Dalcò
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