McDonald’s, fine della presenza diretta in Cina

La società passa la mano a Citic e Carlyle, che gestiranno la rete cinese e di Hong Kong. Troppi problemi negli ultimi anni e la necessità di concentrarsi sul mercato core americano
McDonald’s, fine della presenza diretta in Cina

McDonald’s sta ridisegnando incisivamente la sua geografia mondiale, nello sforzo di riportare il focus sulle attività americane bisognose di essere ristrutturate per tornare ad esprimere le performance economiche desiderate. La società che ha sede a Oak Brook, nello stato dell’Illinois, a pochi giorni dall’insediamento ufficiale di Donald Trump come nuovo presidente degli Stati Uniti, ha deciso di alleggerire la sua presenza sul grande mercato cinese e di Hong Kong, cedendo le sue attività a una newco che sarà di proprietà al 52% del colosso statale cinese Citic (tramite Citic limited e Citic capital holdings) e al 28% del fondo di private equity Carlyle. Il 20% di questa nuova società resterà in mano a McDonald’s, che così dovrebbe reinvestire circa 400 milioni di dollari dei 2,08 miliardi di dollari che incasserà dalla valorizzazione delle attività cinesi. La società acquirente avrà un’esclusiva ventennale sulla gestione e sviluppo dei punti di vendita, così come succede con altri master franchisee McDonald’s nel mondo. L’obiettivo, dichiarato tempo fa dall’amministratore delegato Steve Easterbrook, è quello di aprire 1.500 ristoranti in Cina, Hong Kong e Corea del Sud nei prossimi 5 anni e, a questo punto, il compito spetterà per gran parte a coloro che hanno investito in questa acquisizione.

CEDUTE ANCHE SINGAPORE E MALESIA  – Solo un mese abbondante fa McDonald’s aveva ceduto la gestione dei suoi 390 ristoranti (80% detenuti in gestione diretta) dislocati in Malesia e Singapore a Lionhorn, una società dell’Arabia Saudita che ha già in gestione un centinaio di punti di vendita nel regno mediorientale, nello sforzo di alleggerire la sua presenza diretta nell’area asiatica passando al modello del franchising, che assorbe meno capitale e dovrebbe consentire una gestione più profittevole. Nel caso della vendita cinese ci sono probabilmente altre questioni sul tavolo, oltre al modello franchising sul quale il gruppo si sta concentrando un po’ in tutto il mondo, con l’obiettivo di farlo crescere fino al 95% del totale dei ristoranti. Dall’ultima trimestrale di gruppo emerge infatti che la divisione ‘High growth markets’, nella quale è inserita anche l’Italia, ha subito l’impatto negativo sui ricavi per le attività cinesi a causa di “alcune proteste” (da leggersi come boicottaggi dei ristoranti Mc Donald’s) che hanno interessato i ristoranti nell’ambito delle frizioni geopolitiche e militari nel mar Cinese del sud. Un area contesa tra la Cina e i paesi del sud-est asiatico alleati degli Stati Uniti, dove le tensioni potrebbero crescere con l’arrivo di Trump. Nel 2014, si ricorderà, la società aveva avuto problemi in Cina a causa di un grosso scandalo di sicurezza alimentare che aveva portato a un calo di clienti molto forte, anche nel vicino Giappone.

I TITOLI IN BORSA SOTTOPERFORMANO GLI INDICI – La cessione delle attività cinesi rientra nel grande ridisegno del gruppo che mira ad accrescere la profittabilità in un momento nel quale la concorrenza si è fatta incalzante e la crescita dei ricavi, così come quella dei clienti, si è fatta molto più difficile. In questo contesto va letta la decisione di passare quasi interamente ad un modello di franchising (come i rivali di Burger King, ad esempio) che impegna molto meno capitale (la società incassa solo le royaties e, dov’è proprietaria dei locali, anche gli affitti) o quello di rivedere i menù, specialmente negli Usa dove è stato introdotto l’’all day breakfast’ che sta portando a risultati positivi dopo periodi realmente negativi per le vendite, che erano costati l’addio di Don Thompson. E poi c’è il problema fiscale, con l’indagine aperta dall’Unione europea sul trattamento di favore che la società avrebbe ottenuto in Lussemburgo (McDonald’s ha deciso di spostare, a fini fiscali, il centro delle sue attività europee in Inghilterra dopo l’indagine) e anche negli Usa è aperta una grossa verifica fiscale. In borsa i titoli hanno sottoperformato molto l’indice Standard & Poor’s 500 nell’ultimo anno, come riflesso di una difficoltà nel ritrovare il giusto feeling con gli investitori.

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