La marca deve fare la marca

Al di là della provocazione retorica, che cosa significa, oggi, chiedere ai grandi brand di fare il loro mestiere? Ed è proprio vero che non lo stanno facendo?
La marca deve fare la marca

Di fronte alla battuta d’arresto che, per la prima volta da anni, ha segnato la crescita delle private label in Italia, una delle letture più interessanti, suggerita da Guido Cristini, ordinario di Economia all’Università di Parma, ha legato la frenata delle referenze a marchio del distributore a un azzardato (e pericoloso) ribaltamento di ruoli tra industria e trade nel gestire strategicamente i loro prodotti a scaffale. Mentre l’industria di marca (in larga maggioranza) ha affrontato il calo dei consumi privilegiando soluzioni ‘tattiche’ legate a sconti e promozioni, le insegne della distribuzione (perlomeno le più importanti) hanno optato per la difesa del valore e dell’equity dei loro prodotti, scegliendo una linea di difesa più strategica. Con il risultato che, mentre l’iperpromozionalità distruggeva valore in molte categorie, gli investimenti dei retailer in packaging, linee premium, certificazioni di qualità hanno finito per ritagliare alle private label una fisionomia sempre più simile a quella dei big brand loro competitor: forse i retailer ne hanno risentito in termini di vendite, ma sicuramente hanno tenuto fede a un progetto di costruzione di valore nel lungo periodo.

Viceversa, la domanda che ci si pone oggi sul mercato è per quanto ancora l’industria di marca potrà sopportare di svalorizzare i suoi brand… Le grandi sfide che l’aspettano, non solo sul mercato interno, imporrebbero un repentino cambiamento di rotta. Se è vero, come viene ribadito in ogni incontro istituzionale, che il Governo italiano vuole far crescere il giro d’affari dell’export agroalimentare dagli attuali 33 a 50 miliardi di euro, la marcia indietro sulla politica dei prezzi deve avvenire a tutta velocità.

Dall’America alla Cina, la competizione si può vincere solo difendendo con grande lungimiranza il proprio posizionamento premium (iniziando dagli ‘scaffali’ di casa propria), unico plus che possono giocarsi dei player che non hanno dalla loro grandi volumi e grandi numeri. D’altra parte, che in giro per il mondo stia emergendo una ‘fame’ di prodotti alimentari di alta qualità lo testimoniano i grandi fenomeni che stanno cambiando il volto delle società contemporanee. In America si parla di forte polarizzazione dei consumi, dove i veri protagonisti sono l’alto di gamma e il low cost e ciò che sta in mezzo rischia di scomparire, come dimostra la sofferenza dei punti vendita simbolo dell’offerta mainstream, gli shopping mall. Scrive Federico Rampini da New York: “L’America, felice eccezione mondiale, ha una crescita vigorosa, un mercato del lavoro che tira, consumi in ripresa. Lo shopping mall non è spiazzato da uno tsunami di consumo frugale, decrescita felice, o share economy. E neppure la Rete, cioè l’avanzata delle vendite online, c’entra più di tanto. No, a svuotare i centri commerciali tradizionali sono le diseguaglianze. Lo shopping mall tradizionale è un modello interclassista, trasversale, in una fase in cui la società americana si polarizza: da una parte i lavoratori a salario minimo, dal potere d’acquisto immobile, che vanno a fare la spesa negli ipermercati discount Costco; dall’altra i ricchi che prediligono i grandi magazzini glamour, tipo Saks Fifth Avenue. Schiacciata in mezzo c’è la formula dello shopping mall, inventata in un’epoca in cui al centro del modello sociale americano c’era una vasta middle class, inclusiva di ceto medio e classe operaia”. Risultato: 30 giganti della distribuzione chiusi negli ultimi dieci anni e oltre 60 a rischio nei prossimi. Tanto che è nato addirittura un sito, prevedibilmente chiamato www.deadmalls.com, che documenta con dovizia di particolari la caduta di questi templi del commercio moderno (vedere per credere!).

Dall’altra parte del mondo, un ‘piccolo’ segnale fa riflettere sul fatto che le cose potrebbero non essere molto diverse: Cofco, il più grande produttore alimentare della Cina che, a detta del suo ceo, sta per diventare un colosso da 100 miliardi di dollari, quattro anni fa ha iniziato a rilevare brand vitivinicoli di medie e piccole dimensioni in Cile e Francia. Il perché di questa attenzione ai vini pregati da parte di un operatore statale notoriamente attento solo a bassi prezzi e grandi numeri lo racconta M.J.Silverstein del Bcg, considerato uno dei massimi esperti mondiali del mercato dei beni di consumo: anche i consumatori cinesi tendono al trading up e le imprese che vogliono crescere devono imparare a controllare l’intera catena del valore. Sviluppare competenze nella viticultura d’alta gamma per Cofco è funzionale ad affrontare un livello di concorrenza sul mercato dei vini che potrebbe arrivare a livelli mai visti prima.

Solo un esempio, certo. Ma illuminante sulla strada da seguire. E sul perché gli straordinari brand che abbiamo in casa debbano tornare in gran fretta a concentrarsi sulla costruzione del valore.

di Maria Cristina Alfieri

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